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 2025  giugno 15 Domenica calendario

Intervista a Giuseppe Tornatore

«Regista insieme siciliano e universale». Il copyright è di Sergio Mattarella. Così il presidente della Repubblica ha presentato un mese fa al Quirinale Giuseppe Tornatore, David di Donatello alla carriera della 70ª edizione. Due aggettivi solo all’apparenza in contraddizione. Cineasta capace di arrivare fino all’Oscar per Nuovo cinema Paradiso, mettendo davanti alla sua cinepresa in un flusso eufonico le facce dei conterranei nei documentari degli inizi – uomini e donne, contadini, operai in sciopero, custodi di mestieri antichi, il giovane rapinatore, ma anche i maestri d’elezione, Renato Guttuso e Ignazio Buttitta – così come quelle di star internazionali: Philip Noiret, Michèle Morgan, Marcello Mastroianni, Gerard Depardieu, Roman Polanski, Tim Roth, Monica Bellucci, Jeremy Irons, Donald Sutherland. Senza mai perdere l’imprinting profondo ricevuto e consolidato in quello che è più di un paese natale, Bagheria. «Mi hanno colpito le parole del presidente, dette con il consueto garbo e un tocco di complicità. L’ho assunta come la definizione di una persona terza. Per inciso, parlava di me». Dovrà farlo lui stesso, il 5 luglio in una serata speciale della prima edizione del Baarìa film festival (in programma dal 2 al 6 luglio), ideato da Andrea Di Quarto con la direzione artistica di Alberto Anile, dedicato al cinema insulare. Occasione per Tornatore di tornare a riflettere, come anticipa a «la Lettura», sul significato dell’essere siciliano e su quanto questo abbia influito sulla sua filmografia.
Per tutti noi che non lo siamo, essere isolani porta già in sé una dimensione esistenziale. È così?
«Chi è nato in Sicilia, lo è per tutta la vita. Ti si chiederà sempre conto di cosa significhi essere siciliano. Diventa anche un luogo comune, per certi versi un po’ esaurito. Ma resta un grande tema. Chi nasce in un’isola ha un modo di sentire diverso da chi nasce, diciamo così, in terraferma. La risposta è dunque sì. Scopri da piccolo di essere circondato dal mare».
È capitato anche a lei?
«Ricordo molto bene quando presi coscienza di quello che mi spiegavano, che eravamo circondati dal mare. Dal nulla, tra virgolette. È una consapevolezza che ti arricchisce, sollecita la tua capacità di immaginare. Accentuava in me l’ansia di chiedermi: che cosa c’è oltre? Non intendo dire che per chi non nasce su un’isola questo non succeda. Però credo che nascere circondati dal mare accentui la predisposizione dell’essere umano a cercare di figurarsi cosa ci sia intorno a sé. E a tutto questo si aggiunge il repertorio della solitudine, della sicilitudine».
Ha detto: «Per noi isolani il paese è il mondo, quando mettiamo piede nel mondo, perdiamo l’orientamento».
«Vale soprattutto per chi, come me, nasce in un piccolo centro. È un universo del quale conosci i limiti, sai dove comincia il centro abitato e dove c’è il nulla, la campagna. Sai chi abita lì, chi lì, conosci un po’ tutti: il sindaco, i capi dei partiti, gli artigiani. Hai il mondo pantografato, ridotto in piccolo, lo gestisci. Quando vai fuori queste coordinate le perdi. Curiosamente, mi torna in mente adesso il ragionamento che fa il protagonista de La leggenda del pianista sull’oceano (con Tim Roth, dal monologo Novecento di Alessandro Baricco, ndr) quando parla della tastiera. Dice: se i tasti sono finiti io posso fare una musica infinita, ma se i tasti sono infiniti non posso fare nessuna musica. È un po’ lo stesso concetto. E credo valga per coloro che vengono da luoghi circoscritti: un toscano nato in un piccolo borgo ha una sensibilità diversa da chi è nato a Firenze. Hai una capacità di intelligere il mondo intorno a te differente da chi nasce in un luogo che non ti offre la sensazione della compiutezza».
Ad aprirle i confini del mondo però è stato il cinema, una scoperta molto precoce per lei?
«Mio padre mi portò a sei anni al Supercinema di Bagheria a vedere Uno sguardo dal ponte di Sydney Lumet, anche se il titolo lo avrei scoperto qualche anno dopo. Mentre quello è il primo al quale sono andato da solo e ne avevo sette». (Tornatore indica il manifesto de Gli Argonauti di Don Chaffey che giganteggia sulla parete di fondo del suo studio romano, una wunderkammer cinefila dove ha raccolto gelosamente tutti i suoi gioielli: macchine fotografiche, moviole, proiettori, locandine, bobine Super8, cartelli luminosi «I tempo, Intervallo, II Tempo», un repertorio infinito di oggetti di cui conosce a fondo funzionamento e significato).
Il cinema è stata una folgorazione?
«È stato così. Fin dalle prime volte. Mi ha folgorato il mistero di questo rito. Mi lasciava sgomento. Il Supercinema era una sala molto grande, con uno schermo gigantesco. Quando c’erano i primi piani vedevo queste facce enormi e quando si accendevano le luci mi domandavo: ma da dove sono entrati? Le porte erano piccole... Ma al di là di questo stupore, i film mi mostravano luoghi diversi da quello in cui vivevo. È stata un’occasione per conoscere il mondo, le città. Lo stupore si moltiplicava all’ennesima potenza. E questo era lo stesso sentimento di tutti quelli che mi circondavano. Nella sala tutti viaggiavano, i film aiutavano ad andare in luoghi che probabilmente non avrebbero mai raggiunto. Conoscevano Parigi, Londra, Mosca, New York senza esserci andati mai. Alla domanda che da piccolo mi facevo nel cercare di capire che cosa potesse esserci oltre al mare mi ha risposto il cinema».
E lei ci è voluto entrare letteralmente dentro.
«L’impulso immediato è stato cercare di scoprire come funzionasse quel miracolo, cosa ci fosse dietro quelle finestrelle illuminate. E quindi la scoperta della cabina di protezione che è stata una delle cose più emozionanti della mia vita».
Quando ha imparato a fare il proiezionista, come il piccolo Totò di «Nuovo cinema Paradiso»?
«Verso i nove anni. Volevo scoprire il funzionamento, conoscere proprio la pellicola, le immagini, averne un’esperienza tattile. Questa è una cosa che non puoi dimenticare mai. I miei giovani colleghi di oggi, lavorando con il digitale, quest’esperienza non ce l’hanno. Non sanno cosa sia decidere di tagliare un primo piano rispetto a un totale, averlo letteralmente tra le dita per cui quasi tocchi la pelle degli attori».
A Bagheria lei ha anche gestito un cineclub.
«Era in via Sant’Angelo, a pochi passi dall’ingresso laterale del municipio. Per me ha contato moltissimo, oltre alla competenza tecnica, anche il fatto di aver partecipato alla storia di tante sale cinematografiche, aver fondato il circolo culturale L’incontro, così si chiamava, con diversi amici, averlo gestito per alcuni anni».
Quando ha deciso che non le bastava proiettare film fatti da altri?
«È stato un percorso per certi versi naturale. Il primo rapporto attivo con il cinema è stato quello del mestiere di proiezionista, ma dal punto di vista della creazione di un’immagine è stata la fotografia. Il mio maestro proiezionista era un fotografo, Mimmo Pintacuda; era un mezzo che faceva parte della realtà nella quale vivevo. Il suo era lo stile di un grande concittadino, Ferdinando Scianna. Loro mi fecero scoprire una fotografia diversa dagli scatti della prima comunione, la fototessera, la foto per il passaporto, il ritratto in posa degli sposi. Catturavano la realtà. Le loro foto avevano un legame con il cinema e non solo per il fatto che di mezzo ci fosse un obbiettivo o la pellicola: era l’approccio con la realtà. Non ho potuto sfuggire al fascino. Ma siccome il mio desiderio era il cinema, ho continuato a fare quello che prima avevo fatto con la macchina fotografica con un altro mezzo, la cinepresa».
Autodidatta?
«Sì, dall’età di tredici anni. Lavorando al cinema e come fotografo ero già autonomo dal punto di vista finanziario. Compravo i caricatori Super 8 che costavano moltissimo e giravo, così come avevo fotografato prima. Andavo in giro, guardavo e riprendevo quello che succedeva intorno a me. Magari quel giorno c’era uno sciopero. Oppure era il giorno in cui all’ufficio postale si erogava la pensione. Piano piano iniziai a girare qualche primo documentarietto, a mettere insieme immagini. È stata un’auto-alfabetizzazione, una maturazione anche quella solitaria. A 18 anni ho aperto il mio primo conto corrente, ero autonomo finanziariamente, lavoravo sempre tutte le estati. Mio padre diceva, in controtendenza assoluta: quello che guadagnate è vostro. Così mi ha insegnato a essere autonomo».
Intorno aveva Bagheria. L’ha fissata anche in uno dei suoi film più amati, «Baarìa».
«In dialetto sembra una parola magica come quelle che nei film pronuncia il personaggio che fa aprire la caverna».
Quanto sente che questo imprinting sia stato fondamentale?
«Lo riconosco sempre nel mio modo di procedere, nei miei pregi, nei miei tanti difetti, tutto proviene da lì. Sia nei momenti in cui riconosco di essermi comportato bene, di avere avuto un buon intuito o di avere prodotto un buon ragionamento su qualcosa che in quel momento mi coinvolgeva o mi creava difficoltà, sia nei momenti in cui mi rendo conto di non essere stato adeguato in certe circostanze. Ho sempre avvertito che tutto, nel bene o nel male, provenisse dal mio paese, dalla mia famiglia. Soprattutto dall’educazione che ho ricevuto dai miei genitori. Perché quella è stata forse la cosa più forte: l’essere nato in una famiglia umile, ma illuminata. Avere ricevuto un’educazione basata su principi forti, sull’impegno politico, sull’essere sempre attenti a ciò che succede, sul cercare di capire ciò che gli altri dicono senza dirlo. Cercare di contare sulle tue sole forze, se puoi, e di ricorrere all’aiuto altrui solo quando non ne puoi fare a meno. Saperlo chiedere e soprattutto saperlo restituire».
A Bagheria ha fatto incontri formativi: Guttuso, Buttitta, Scianna, Dacia Maraini...
«Figure di cui avevo sentito parlare da piccolo che poi ho conosciuto e ho avuto il privilegio di frequentare. Mi hanno insegnato sin da subito quanto fosse importante tradurre in qualcosa di concreto ciò che hai assorbito. Ignazio recitava le sue poesie e noi rimanevano incantati dalla meraviglia; poi lo vedevi per strada a parlare con gli altri, nel suo negozio di salumeria. Ti faceva capire che chiunque poteva trovare un codice attraverso cui esprimere i propri sentimenti».
Nel suo doc «Diario di Guttuso» Buttitta sostiene che il poeta è un seminatore.
«Intendeva dire che qualunque cosa venga creata, anche di incompiuto, o di incomprensibile sul momento, a condizione che sia dettata dalla propria autenticità, cresce. È una visione meravigliosa che Ignazio ti dava e che ti faceva crescere. La stessa cosa Guttuso. Ricordo quando lo andavo a trovare al suo studio. Per abitudine ti riceveva, ci si salutava, poi dipingeva quasi come se tu non ci fossi. Tu guardavi e si parlava. Una volta stava dipingendo una cosa bellissima, però a un certo punto si fermò. Concentrò il suo sguardo, diede due o tre boccate con la sigaretta, prese un taglierino e tagliò la tela. Io ero sgomento: ma perché? Non aveva anima, mi rispose. A me sembrava bellissimo, ma lui intendeva qualcosa di più profondo. Mi ritengo fortunato: sono nato in un luogo circoscritto e ho avuto maestri che mi hanno insegnato a praticare linguaggi meravigliosi, la fotografia, la poesia, la letteratura, la pittura, l’arte della ripresa cinematografica. Sento che tutto quello che faccio, sia quando lo faccio bene che meno bene, viene da lì».
Quando ha preso coscienza che quel mondo di ville settecentesche non era estraneo alla mafia?
«Con la strage di Natale del 1980 Bagheria diventa una delle città del triangolo della morte. Ero nel mio studio, alla moviola, e sentii degli spari, vidi le macchine che rincorrevano, seppi dei morti. Fu un trauma e, insieme, un’ulteriore crescita per cercare di capire quale dovesse essere la bussola da seguire, essere vigile. Mi sono imbattuto da subito in ciò che può essere il bello della vita umana e ciò che è il peggio del peggio. La volontà di annullamento della vita degli uomini per interesse, per la violenza fine a sé stessa».
Da anni vive a Roma. Secondo il principe di Salina i siciliani devono andarsene prima dei 16 anni. Lei ci ha messo un po’ di più...
«Eh, non ho seguito la formula di Tommasi di Lampedusa. Sono andato via tardi, a 27 anni, quando i difetti, la crosta come dice lui della sicilitudine, si era già formata. Me li sono portati tutti. Per la verità l’istinto di seguire il consiglio l’avevo, sognavo di farlo, ma non sono riuscito a metterlo in pratica. E dunque? Dunque va bene così, forse anche per questo riconosco sempre in me le mie origini, in tutto quello che faccio. Di giusto e anche di sbagliato».