La Lettura, 15 giugno 2025
«Twin Peaks» non è ancora finita
«Il fatto che ancora oggi si parli di Twin Peaks, che continui a intrattenere e a offrire spunti di riflessione, è una grande gioia». Collegato via Zoom da Los Angeles con «la Lettura» c’è Mark Frost, sceneggiatore, regista, scrittore, creatore con David Lynch della serie tv che nel 1990 cambiò per sempre la televisione.
«Chi ha ucciso Laura Palmer?». La domanda è rimbalzata sugli schermi di tutto il mondo, in un mix tra mistero, soap opera, sovrannaturale che ha affascinato intere generazioni. A 35 anni dal debutto, l’8 aprile 1990, sull’americana Abc (in Italia arrivò nel ’91 su Canale 5 con il titolo I segreti di Twin Peaks), la serie è appena approdata su Mubi. La piattaforma del cinema d’autore la accoglie per intero: le prime due stagioni, uscite tra il 1990 e il ’91, e i 18 episodi di Twin Peaks. Il ritorno che si sono aggiunti nel 2017, sempre scritti da Frost e Lynch e diretti dal regista scomparso lo scorso 16 gennaio.
Frost, 71 anni, ora sta lontano dal trambusto della tv e si dedica ai libri: «Un mio prozio fu il segretario del presidente Roosevelt dal 1933 al 1945; durante la Seconda guerra mondiale tenne un diario. Ne ho tratto un romanzo che uscirà il prossimo anno: racconto la storia dal suo punto di vista». Altre storie. Altri sguardi sulla realtà. Ma Frost torna con piacere al momento in cui con Lynch creò Twin Peaks.
Che effetto le fa parlarne oggi?
«È una grande emozione. Creare e realizzare la serie per me è stato soprattutto lavorare con il mio amico David. Ci conoscevamo da tre anni, avevamo lavorato insieme ad alcuni progetti. Ci piaceva unire le nostre menti e vedere cosa ne veniva fuori. Twin Peaks ha innestato una straordinaria catena di eventi: il viaggio della vita, condiviso con gli amici e la famiglia».
Quando avete capito che stavate realizzando qualcosa di rivoluzionario?
«Mio padre era un attore (Warren Frost in Twin Peaks è il dottor Will Hayward, padre di Donna, la migliore amica di Laura; appare anche ne Il ritorno, in scene girate poco prima della morte, ndr), sono cresciuto in tv e ho sempre pensato che potesse offrire molto di più in termini di complessità della narrazione. Ma in un’industria conservatrice per natura, la teoria non era stata testata. All’Abc le cose non andavano benissimo e li abbiamo convinti a farci provare. La puntata pilota ebbe enorme successo: i dirigenti non riuscivano a capire perché piacesse tanto, ma i numeri – oggi parleremmo di algoritmo – erano chiari».
Alla messa in onda, 34 milioni di spettatori videro la prima puntata, con il ritrovamento del cadavere di Laura Palmer, reginetta della scuola nella fittizia Twin Peaks, 51.201 abitanti al confine con il Canada...
«Numeri da Super Bowl in risposta allo scetticismo del network. Eravamo il loro maggiore successo, ma continuavamo a metterli a disagio. Per evitare che decidessero di non farci tornare per la seconda stagione, nel finale della prima ho inserito una serie di cliffhanger, lasciando un groviglio di punti irrisolti...».
Avete creato un intreccio di surrealismo e ritratto della realtà – sogni, incubi, doppelgänger, logge nere e bianche. Tante serie dichiarano di essersi ispirate a voi, da «X Files» a «Riverdale»... Per lei quali sono le vere eredi?
«L’imitazione è la più sincera forma di televisione, si dice nell’ambiente: se qualcosa funziona si replica all’infinito. Ma gli show che ci hanno imitati in modo sistematico non hanno funzionato. Le migliori sono le serie che si sono fatte ispirare da alcuni rischi che ci siamo presi e ne hanno corso di simili. La vera ispirazione è una scintilla che accende il proprio modo di pensare. Penso ai Soprano (1999-2007). Il creatore David Chase mi disse che era stata la nostra abilità di mescolare spirituale e realtà a dargli il coraggio di esplorare la vita onirica del boss Tony Soprano... Alla fine non abbiamo fatto nulla di così innovativo: ci siamo limitati a riallacciarci all’antica tradizione del teatro e del cinema, che da sempre offrono nutrimento attraverso storie complesse».
Dopo due stagioni la serie fu cancellata. Il mistero della morte di Laura Palmer è stato risolto troppo presto, al settimo episodio del secondo blocco?
«Sì! Ce ne siamo pentiti, ma allora non avevamo scelta. Credetemi, l’abbiamo tirata il più in lungo possibile. La rete continuava a minacciarci di cancellare lo show. Il trattamento fu pessimo: dal giovedì ci spostarono al sabato sera, un cimitero per l’audience. Ma in un certo senso sono contento che sia andata così. Abbiamo potuto prenderci una pausa di 25 anni, maturare, pensare ai temi che volevamo trattare. Nel 1992 non avremmo mai potuto realizzare la terza stagione così come l’abbiamo fatta nel 2017...».
Con «Il ritorno» avete dato a «Twin Peaks» il finale che desideravate?
«Non volevamo fare un esercizio nostalgico, ma una serie che riflettesse ciò che eravamo diventati. La prima volta tutto era avventuroso e fuori dagli schemi, ma con la terza stagione abbiamo potuto fare ciò che volevamo. I finali in realtà sono due (o due simultanei): ci siamo però sempre rifiutati di dare interpretazioni. Quello che avevamo da dire è tutto lì, devi capire cosa significa per te. È ancora più divertente se ti concedi di sognare»
Oggi nuovi e vecchi spettatori possono scegliere di bersi la serie tutta d’un fiato o vedere un episodio a settimana come pensato in orgine... Cosa pensa del modo in cui ora fruiamo le storie?
«Le storie sono parte essenziale del nostro Dna, sono nutrimento spirituale e immaginativo. Non ci sono mai state così tante storie a disposizione... Devi saper scegliere, ma credo che si debba festeggiare il fatto che la narrazione coinvolge tutti a livello globale. Spero che riesca a parlare alle persone nello stesso modo in cui avveniva negli antichi anfiteatri».
Avete rappresentato una piccola città di provincia che nasconde l’oscurità sotto la superficie. Negli episodi del 2017, l’oscurità è ancora più diffusa e procede l’esplorazione della natura del male. L’America che avete rappresentato corrisponde a quella di oggi? L’America di Trump, Elon Musk...
«L’oscurità ora non è più completamente sotterranea. Nel 2016 avevamo finito di scrivere, stavamo girando e nello stesso periodo ho firmato due romanzi che espandevano la serie. Non sapevamo cosa sarebbe successo, ma eravamo come canarini in una miniera di carbone: l’abbiamo previsto. L’America era diretta verso un periodo oscuro. Speriamo sia breve, ma sicuramente è arrivato».
La possibile uscita?
«Nel mio primo libro ho inserito una citazione: “Tutto quello che il diavolo ci chiede è accondiscendenza”. Bisogna lottare per ciò in cui si crede. Le persone che mentre parliamo protestano a Los Angeles ne hanno tutto il diritto. L’America ha rappresentato un sogno importante per molti e ora quel sogno è sotto attacco. Twin Peaks pone una domanda che tutti ci dovremmo fare: cosa significa questo per me e cosa farò al riguardo? Spero che qualcuno possa prendere spunto dal nostro lavoro, trovarvi conforto e, magari, un po’ di coraggio».
Con David Lynch avete parlato della possibilità di espandere ulteriormente il mondo di «Twin Peaks»?
«In continuazione. Ma uno dei temi della terza stagione è la mortalità: tutti arriviamo in questo mondo con una data di scadenza; il tempo scorre e noi siamo intrappolati. Il tempo di David è arrivato e lui, uomo spirituale, era meno spaventato di altri. Cosa riserva il futuro non lo so. Con Il ritorno abbiamo dato al pubblico un pasto abbastanza completo. Potrebbero esserci altri modi per espandere quell’universo e mantenerlo in vita. È troppo presto per pensarci. Ma prima o poi lo farò. E ve lo farò sapere».