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 2025  giugno 15 Domenica calendario

Il nichilismo è ancora con noi

Lo spettro che si aggirava per l’Europa negli ultimi decenni dell’Ottocento non era già più il comunismo, come avevano annunciato Marx e Engels solo pochi anni prima, ma il nichilismo. Scoperto di fatto e di nome dai russi (forse Turgenev, nel 1862) ma ipotizzato ben prima, da Friedrich Jacobi, che nel 1799 accusò di nichilismo l’idealismo postkantiano; e ancora prima colto come evidenza politica nella rivoluzione francese, in cui oltre la destra e la sinistra si posero trasversalmente i riennistes, i «nullisti», incontrò il suo profeta e teorico più importante in Friedrich Nietzsche.
Nel secondo Novecento, con la «Nietzsche Renaissance», il tema fu rilanciato e divenne centrale per quella parte della filosofia europea, in seguito detta «continentale», che proseguiva la filosofia classica tedesca sulle orme del binomio Nietzsche-Heidegger. Nel mainstream della filosofia anglo-americana (oggi dominante) la questione non ha mai avuto grande rilievo, a parte i nichilismi settoriali: quello metafisico di Peter Unger, da tempo teorico dell’inesistenza delle «cose» (Philosophical Relativity, 2002), o il logical nihilism, studiato da Gillian Russell (Barriers to Entailment, 2023): un’idea paradossale di logica senza logica, senza legge né verità.
Ma che cosa era (è?) esattamente il nichilismo? Da dove e come nasceva? E soprattutto: se lo intendiamo nel senso nietzscheano, come assenza di verità, realtà, valori, senso, dobbiamo ancora misurarci con questo estremo negativo, «l’ospite più inquietante» della cultura occidentale? Un’idea che sta circolando tra molti commentatori del presente è che il nichilismo è ancora vivo, e non è stato affatto spazzato via dalla rivoluzione digitale. A parlarne oggi sono anzitutto i pensatori apocalittici, come Byung-chul Han, che descrive il new nihilism come conseguenza inevitabile dell’Infocrazia (2023), il dominio falsamente liberale dell’informazione. E «nichilismo» è da lui inteso in senso generico, come scetticismo abissale o cinica indifferenza al vero. Per Nolen Gertz (Nihilism, 2019) è «fuga dalla realtà», una ben nota sindrome che domina nelle menti scoraggiate dei nativi digitali. Un analogo contemporaneo è poi la post-verità, la condizione sociale per cui «le menzogne sono tollerate, e i fatti sono ignorati», come scrive Michael Lynch (On Truth in Politics, 2025). Se d’altra parte, come dichiara Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, «il mondo vero è diventato una favola», e con la perdita del mondo vero «abbiamo anche perso il mondo apparente», allora il nichilismo è la malattia democratica per eccellenza. Essere nichilisti significa partecipare al grande gioco del linguaggio pubblico: un mondo che non c’è, su cui diciamo cose insensate, contraddittorie, false, siamo liberi di dirle e anche di crederci.
Che qualcosa definibile come «nichilismo» sia ancora un requisito del presente sembra un’intuizione plausibile, ma non è facile destreggiarsi nei diversi modi di descrivere il fenomeno. Una ricostruzione accurata ci è offerta da Costantino Esposito, che da tempo si occupa del problema, e intitola il suo libro più recente The New Nihilism (2024). Per Esposito il nichilismo è una «crisi esistenziale» che perdura ancora oggi, ma da cui forse stiamo uscendo. Il messaggio incoraggiante nasce da ciò che avvertiva già Nietzsche: il nichilismo ha molte espressioni e ragioni diverse, e alcune non sono disprezzabili.
Esposito ricostruisce così un’utile mappa delle possibilità offerte dall’ampio mercato nichilista, riconoscendone ben sette varianti. La prima è il nichilismo come emancipazione del pensiero dalle strettoie dei valori dominanti. Nessuna crisi esistenziale dunque, ma una giusta ribellione a verità ricevute che forse non sono niente affatto vere. Il maggior teorico di questa linea di indagine è stato Gianni Vattimo, autore nel 1985 di una provocatoria «Apologia del nichilismo» (in La fine della modernità). Già, ma dove si ferma la ribellione alle received views? Dobbiamo ribellarci per esempio alle verità scientifiche, in cui abitiamo e che ci servono per vivere? Esposito nota che la risposta di Vattimo non è affatto nichilista: è infatti la risposta dell’ermeneutica. Un buon nichilista per Vattimo è un interprete, saggio e libero, del presente. Ma è ancora nichilista? Forse no.
Non sembrano neppure «davvero» nichilisti i sostenitori della seconda variante: il nichilismo come volontarismo rivoluzionario o anarchismo. Costoro praticano l’annientamento di tutti i valori, ma sono destinati a fallire, vittime del più ovvio e semplice dei valori. Per esempio, nel caso di Bazarov, il personaggio di Turgenev, primo esponente di una ricca schiera di rivoluzionari in nome del niente sovrano, il nichilista si innamora, rivelando così le sue intime mire borghesi.
Un conto è però il nichilismo inteso come teoria o programma, e un conto come fatto, come requisito della cultura contemporanea. «Dal punto di vista descrittivo», dice Esposito, il nichilismo nasce dalla secolarizzazione, il dileguarsi di Dio dalle forme della cultura moderna. Dio muore, e muoiono con lui tutti gli altri concetti-valori che costituivano (analogicamente) il suo linguaggio: verità, giustizia, bene, conoscenza, realtà, eccetera. Il «nichilismo come secolarizzazione» però è il meno coerente che si possa ipotizzare. Il pensiero laico infatti non toglie di mezzo la religione, ma se ne appropria nelle forme del potere-denaro, nutrimento per il celebre «spirito del capitalismo». E d’altra parte, c’è anche un nichilismo del «ri-incantamento» (reenchantment): «i soggetti secolarizzati non perdono l’idea di autorealizzazione nel senso dell’auto-trascendenza, cioè la scoperta di fattori che li superano». Questa nuova «fede nell’invisibile» secondo Esposito è la via che può liberarci dalla trappola ottocentesca.
Il viaggio prosegue poi con il nichilismo come «pragmatismo», come «negazionismo e fuga», «abolizionismo e antiumanismo», e culmina con il «nichilismo zen», che nega la consistenza dell’io e del reale, e per cui la fuga dal mondo è destinata alla suprema pace del nirvana.
Un’obiezione possibile è che se davvero troviamo il tema in tutte queste forme, dall’emancipazione all’estasi zen, il concetto è troppo vasto e sottile. Nolen Gertz ha tentato di restringere il campo, distinguendo la posizione nichilista dai suoi analoghi e affini: cinismo, pessimismo, emancipazionismo, morte di Dio, eccetera. Ma se togliamo tutto ciò, quel che rimane è poco, e quel poco è autocontraddittorio. L’excursus di Esposito infatti conferma un problema ben noto: il nichilismo non può sopravvivere a sé stesso. Se davvero non c’è alcun valore, perché dirlo e crederlo, se non in nome del valore-verità? E se si tratta solo di agire, e di creare se mai una nuova umanità di liberi pensatori, in nome di quale valore dovremmo farlo? Non per nulla Karl Jaspers nella Psicologia delle visioni del mondo sosteneva che è solo uno stato psicologico, la cui conclusione naturale è il suicidio. Se però tutta questa multiforme teorizzazione si riferisse soltanto alla vaga possibilità di uno stato mentale negativo, forse ci sarebbe ragione di dimenticare il problema, o comunque ridimensionarne l’importanza ontologica e pratica.
In realtà una certa «scomparsa del mondo» o un certo «oblio dell’essere» è ancora un requisito della logica che governa la razionalità contemporanea. Nietzsche stesso dichiara negli ultimi scritti: il nichilismo «è una logica pensata sino in fondo»; per Heidegger come per Emanuele Severino è «la logica dell’Occidente». E si tratta anche di «logica» in senso tecnico, quella meccanizzazione del pensiero che da Leibniz in avanti costituisce il sogno dei logici. Proprio su questo piano l’intuizione di Nietzsche si conferma oggi in modo interessante, perché eredi dirette del sogno logico sono le macchine dette «intelligenti», che oggi abitano con pervasiva prepotenza le nostre vite.
Le macchine sono, e non possono che essere, nichiliste al massimo grado. Nessuna macchina può incontrare la realtà e costruirci discorsi veri. Nessuna macchina è, come noi, continuamente alle prese con l’urto del mondo fisico, il dolore dei corpi, e quella ricezione fondamentale che ci fa dire, con pena o gioia: «C’è un mondo», e di qui incominciare a pensare al bene, alla giustizia, ai diritti. Le macchine incontrano ed elaborano dati, non incontrano mai fatti.
In questa accezione possiamo dire che lo spettro si aggira ancora, non soltanto in Europa ma ovunque, ed è ancora più insidioso del suo omologo ottocentesco. «Nichilismo» ci appare il centro auto-corrosivo di una cultura che dimentica la realtà qui e ora e su questo oblio costruisce dominio e oppressione. E il mondo digitale è oggi l’espressione ovunque vincente di una simile cultura. Non è escluso che nel tempo il machine learning riesca a fermare i droni assassini che conseguono dall’«oblio dell’essere». Perché ovviamente le macchine non sono responsabili, sono i docili strumenti di un’umanità autocontraddittoria che a tratti nega se stessa e la propria intelligenza.