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 2025  giugno 17 Martedì calendario

Casarin: «Arbitri, cercatevi un lavoro. Meglio per la vostra vita»

«L’arbitro deve tornare a fare l’arbitro». Ciò che più colpisce di Paolo Casarin, 85 anni, 200 gare in serie A fra ’71 e ’88, uno dei più grandi fischietti di sempre, non è tanto la sua formidabile memoria, capace di ricostruire i dettagli di un meeting a Sarajevo di trent’anni fa o gli ammoniti di un Fiorentina-Juventus del 1982, quanto l’intatta propensione al futuro. Ancora oggi, nel suo elegante appartamento pieno di libri, foto e ricordi di viaggi accumulati nei viaggi di una vita insieme all’inseparabile moglie Francesca, continua a lavorare sullo sviluppo non solo dell’arbitraggio, ma del calcio. Aggiorna statistiche, continua a studiare, scrive commenti e articoli per il Corriere, è impegnato con un libro, in uscita tra poco.
Di cosa parla?
«Il mio viaggio lungo una vita. Sono nato a Mestre, durante la guerra, la notte dormivamo nei fossi per paura delle bombe. In quegli anni è nato l’amore per il pallone».
Ha lavorato per una vita all’Eni e ha girato il mondo. Oggi gli arbitri sono di fatto professionisti. Meglio prima o meglio adesso?
«Tempi diversi, mondi diversi. Avevo studiato da perito chimico e nel 1960 venni al laboratorio ricerche di Milano. Sono stato ovunque, nel 1968 a Bratislava ho visto arrivare i carrarmati sovietici. Ho visitato 106 Paesi, compreso il Tibet, il più bello di tutti (la moglie Francesca ci ha scritto anche un libro, «Il tetto del mondo», ndr). E da ogni viaggio ho appreso qualcosa. Ho imparato l’importanza del dialogo. Io ai giocatori davo del tu. Lo Bello, uno dei più grandi di sempre, era diverso. Duro, autoritario. Il suo era un arbitraggio da “qui comando io”, il mio era più improntato a parlare con i giocatori».
Ci dica un segreto, tanto ormai è tutto in prescrizione: ma come faceva a lavorare all’estero e poi andare ad arbitrare la domenica?
«Non dicevo niente a nessuno. All’Eni non dicevo che andavo ad arbitrare, agli arbitri non dicevo che andavo a lavorare. Semplice. Una volta arrivai dal Brasile il sabato, col derby di Torino la domenica. La notte non chiusi occhio per il fuso orario, il giorno dopo mi addormentai in treno. Mi svegliò un controllore alla stazione di Porta Susa, presi un taxi di corsa e giunsi allo stadio 20 minuti prima dell’inizio. Un’altra volta sono arrivato direttamente la domenica mattina a Roma da Nuova Dehli per Roma-Fiorentina. Per fortuna il calcio di allora era più lento rispetto a oggi».
Cosa non le piace invece del calcio di oggi?
«Di sicuro non mi piace il Mondiale per club: se una partita finisce 10-0, qualcosa non va. Si deve tornare allo spirito dei padri fondatori. Basta complicazioni. Il cambio di regole costante rischia di uccidere il calcio, che è attacco e difesa: non vanno introdotte norme e interpretazioni che privilegiano solo una fase. Servono regole semplici, chiare e stabili. Il calcio non è di chi lo governa: è della gente. E l’arbitro è il servitore delle regole, non il padrone».
La Var va riformata?
«Il problema non è la tecnologia, ma come la si usa. E quanto. Come per i telefonini. La Var è utile, magari l’avessi avuto io. Ma deve essere più veloce nelle decisioni per non destare dubbi. E occorre lavorare sull’uniformità».
Una regola da cambiare?
«Va reintrodotto il concetto di volontarietà. Da quando l’hanno abolito, introducendo la variabile del movimento congruo o non congruo, si sono moltiplicate le decisioni assurde. Vedi i rigorini».
Da tempo hanno dichiarato guerra ai rigorini, termine da lei coniato. Ma è stata vinta o no?
«Qualcosa sta migliorando, lo dicono i dati. Ma serve di più. Se si chiama massima punizione, c’è un motivo. E le simulazioni non sono tollerabili: è tradire il calcio».
Che ne pensa del fuorigioco al microscopio?
«Non si può annullare un gol per un’unghia. Va introdotto il concetto di luce».
La sensazione è che siano aumentate anche le proteste in campo. Scene pessime.
«Serve dialogo. Ma occorre parlare prima, non dopo. Dopo, è tardi. Quando la partita ti sfugge, non la riprendi».
È stata una stagione negativa per i fischietti della serie A. Come se ne esce?«Innanzi tutto l’arbitro deve tornare al centro. Oggi è ostaggio della Var. La tecnologia è un supporto, non può sostituire l’arbitro».
C’è anche un problema generazionale. Il livello degli arbitri si è abbassato?
«Apprezzo il lavoro del designatore Rocchi, che ha molti giovani e sta cercando il migliore indirizzo pur con tutte le difficoltà. Uno bravo è Colombo. Poi mi piacerebbe vedere più donne ad alto livello. Sono più serie, più rigorose, più sensibili degli uomini. Vedi Maria Sole Ferrieri Caputi: arbitra e lavora come ricercatrice. Si può fare. Certo, le donne devono essere lì perché brave, non per slogan».
Le troppe violenze sui giovani arbitri scoraggiano chi vuole iniziare.
«Occorre un salto culturale, politico. È un problema non del calcio, ma sociale. E poi mi lasci fare un appello».
A chi?
«Agli arbitri, a chi sennò? Trovatevi un lavoro. Preparatevi, studiate, costruitevi un futuro. Per essere pronti, quando finirete la carriera. Non bisogna per forza rientrare nella struttura o fare i commentatori in tv. C’è vita oltre il fischietto».