Corriere della Sera, 17 giugno 2025
La figlia di Luigi Necco: «Soltanto tra gli scugnizzi si sentiva felice. Quando in aereo con me si è portato l’amica...»
Il personaggio lontano dall’uomo, il Luigi Necco nazional popolare è l’altra anima di Gigi, papà di Alessandra, marito di Carmen e nonno di Martina. Telecronista sportivo e tifoso del Napoli, volto del 90° minuto di Paolo Valenti, appassionato di archeologia: chi era veramente l’uomo della porta accanto, orgoglioso figlio del Sud, vittima dei tormenti della sua infanzia? Era il figlio di un antifascista tenuto in carcere per lunghi periodi, a Gigi, bambino, era stata negata anche la scuola. Otto fratelli, una vita complicata, ma lo sguardo sempre positivo sul mondo. «Napoli chiama, Milano risponde», la sua frase è diventata leggenda nel raccontare in Rai il duello a distanza fra Van Basten e Maradona.
Chi era suo padre, Alessandra?
«Un uomo esagerato, a volte prepotente. Generoso ma assente. Il lavoro ha riempito la sua vita. Dedito alla gente comune, troppo. Per me diventava imbarazzante. Quando è morto ho sentito dire: “E adesso chi pensa a noi”? Per tutte le volte che, io adolescente, mi sono chiesta dove fosse papà, quanto mi mancasse».
Il primo ricordo che ha di lui.
«Sul balconcino di casa in via Bausan nel quartiere Chiaia a Napoli, dove vivevamo con i nonni. Avevo quattro anni, lui si era già separato da mamma, era venuto a trovarci. Era il 1969, l’anno dello sbarco sulla Luna. Mi diede un foglietto scritto, mi chiese di leggere. Non ricordo bene cosa c’era scritto ma feci come diceva. Papà lavorava in radio e registrò la mia voce, compiaciuto. L’avrebbe utilizzata».
L’ultimo.
«In ospedale, sta male, è attaccato alla macchina dell’ossigeno. Mi guarda con i suoi occhioni chiari, dice: “Sai Alessandra, mi è piaciuto avere una figlia come te”. È stato il suo modo per dirmi quanto mi avesse voluta bene, anche a distanza. Stava morendo».
E lei?
«Piansi. Cominciai a pregare, lui mi fece cenno con la mano di smettere. “Lascia stare queste cose, voglio la musica”. Non riuscii a esaudire questo suo desiderio. Forse speravo si sarebbe ripreso, era successo altre volte. Negli ultimi anni papà aveva crisi respiratorie frequenti, entravo e uscivo con lui dall’ospedale. In qualche modo riusciva sempre a farcela. Una volta fuori, mi chiedeva di fermarmi al bar: brioche e cappuccino, contro ogni prescrizione medica. Magari anche un sigaro. Lui era così, insofferente alle regole. Probabilmente ne aveva avute troppe da ragazzo».
Separato da sua madre Carmen.
«È successo due volte, la prima avevo 4 anni, dopo un po’ tornò da noi ma durò poco. Avevo 12 anni quando si separarono ufficialmente. Non reggeva ai compromessi, il matrimonio lo limitava, troppo sensibile al fascino femminile. Una volta lo sorpresi per strada con una donna bionda».
E cosa fece?
«Ero con un amico, lo chiamai, lui mi vide ma fece finta di niente. Non si avvicinò, mi ignorò. Come se fossi stata trasparente. Andò anche peggio quando mi chiese di andare con lui in America. Non ne avevo voglia ma lo accontentai. Saliti in aereo mi accorsi che eravamo in tre: io lui e la sua compagna del momento. Lo avrei ammazzato!».
Come andò la vacanza?
«Mi adeguai, come sempre».
Il calcio, il Napoli e... Maradona.
«Il suo bellissimo mondo, si sentiva realizzato fra la gente, i ragazzini, gli scugnizzi. I suoi collegamenti erano sempre per strada. Con mamma lo guardavamo in tv, ci faceva ridere. Mamma non è riuscita ad avere una vita personale che non contemplasse lui. Insegnava e dopo la scuola era a casa da me. Gli è stata devota fino alla fine».
Mai con lui allo stadio?
«Certo, ma durante la partita mi lasciava in un gabbiotto sopra le tribune con un operatore Rai, poi quando aveva finito tornava a riprendermi. Doveva sentirsi libero. Il senso l’ho capito dopo ed è stato un insegnamento».
Cioè?
«Le scelte libere, la leggerezza esistenziale. Se mi piace una cosa la faccio, non so se domani sarà possibile. Ascolto ma decido io».
Processo Cutolo: il presidente dell’Avellino Sibilia arriva in aula con il calciatore Juary, omaggia il boss di un gagliardetto della squadra. Suo padre racconta tutto in tv, fu gambizzato.
«Ricordo che mi avvisò un amico, feci una corsa disperata verso la clinica dove era ricoverato. Mi accolse sereno, non impaurito. Fu lui a tranquillizzarmi. Eravamo insieme quando il presidente della Repubblica Pertini gli telefonò: “Necco, si riprenda presto. Questo è un paese di briganti”. Lui sdrammatizzò: “Presidente, non è successo niente, sono salvo”. Rimasi di stucco, ancor di più quando venne a fargli visita proprio il presidente dell’Avellino che portò anche a lui un gagliardetto. Papà lo prese, era un uomo pratico».
In che senso?
«Accettò la visita e l’omaggio, senza porsi troppe domande. Lui riteneva che le questioni filosofiche fossero materia inutile. Il mio opposto, sono appassionata di filosofia, mia figlia Martina la studia all’Università».
Papà riuscì a laurearsi?
«Certo, senza dire niente a nessuno. Quando mi sono iscritta io all’università mi disse: ho ripreso anche io, voglio laurearmi. Quando accadde ce lo fece sapere dopo. Provai anche io a non dirgli il giorno esatto della mia laurea. Ma lo seppe».
Cosa fece?
«Arrivò nell’aula dove stavo per discutere la tesi con un fascio enorme di rose rosse. Vidi lì, ancora una volta, il Necco esagerato, cercai di isolarmi da lui».
Giornalista sportivo ma anche archeologo, quale parte di lui ha amato di più?
«Forse la seconda. Ho letto tutti i libri che ha scritto, lì c’è tutta l’intensità dell’uomo. La concretezza, la passione, la storia, la ricchezza dei dettagli. E la sua curiosità innata. Col tempo poi ho capito quanto fosse importante per papà fare il giornalista ma a modo suo: far felici le persone, regalare sorrisi, Sentirsi amato».
Ha rappresentato a suo modo il duello sportivo Napoli-Milan, come avrebbe raccontato lo scudetto di oggi?
«Alla stessa maniera, magari inventando un altro slogan. Papà in fondo non si è mai arreso al tempo che passava. Negli ultimi anni della sua vita, aveva voglia di tornare indietro, di ricominciare a fare il Necco nazional popolare del pallone. “Finché ho voce...” diceva».
Che nonno è stato?
«Ha adorato Martina, la mia unica figlia, con lei è stato veramente presente. Con me ci ha provato, cercava di ritagliarsi i momenti ma purtroppo doveva lui dettare i tempi, e non erano sempre quelli giusti per me. Quando c’era bisogno magari non c’era. Con Martina è stato eccezionale».
Con sua madre Carmen?
«Le ha voluto molto bene ma era la parte della sua vita che faticava ad accettare. Mamma ha avuto problemi di salute, lui non lo voleva sentire, le sofferenze gli ricordavano la sua infanzia. Negli ultimi anni non scendeva a patti neanche con i suoi di dolori. Si nascondeva, voleva che le persone lo immaginassero col sorriso, lo ricordassero così. È morto da solo».
Cioè?
«Alla fine non ha voluto nessuno con lui in ospedale, diceva di no a tutte le visite».
Volto di Mediaset, non si è fatto mancare nulla.
«Sì, Berlusconi gli piaceva. Mi disse: “Ho detto al cavaliere che lui deve fare politica, è troppo avanti”. Non so se il suo racconto fosse autentico, so però che quando Berlusconi decise di scendere in campo, lui si attribuì qualche merito (“mi ha ascoltato”). Vero o falso, lui ci credeva davvero»