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 2025  giugno 17 Martedì calendario

Fallimenti da evitare

Mutamento di regime, regime change? È davvero questo, oltre alla distruzione del suo potenziale nucleare, l’obiettivo di Israele nella guerra con l’Iran? In Occidente, l’espressione regime change è stata a lungo associata all’idea che fosse possibile «esportare la democrazia» con la forza delle armi. Lorenzo Cremonesi (Corriere del 16 giugno) ha documentato quanti fallimenti ne siano derivati.
S i può però anche usare l’espressione in modo neutro, senza presumere che il crollo di un regime dittatoriale debba necessariamente lasciare il posto a una democrazia. Cosa ci dice l’esperienza accumulata su come avvengono i mutamenti di regime, intesi come sostituzione di un regime politico con un altro quale che esso sia? Di sicuro, sappiamo come tali mutamenti non avvengono: non avvengono (solo) a causa di un intervento militare esterno né (solo) a causa di manifestazioni di protesta interne. Nel primo caso l’intervento esterno può condurre a un compattamento del regime (a una fiammata nazionalista che lo rafforza) oppure può provocarne effettivamente il crollo. Non è affatto detto che in tal caso la dittatura abbattuta verrebbe sostituita da un altro regime politico: potrebbe invece dilagare il caos, l’anomia, la guerra di tutti contro tutti (Libia). Nemmeno è una garanzia di cambiamento di regime il fatto che il Paese sia occupato dalle armate dei vincitori. Talvolta ciò provoca effettivamente tale mutamento (Germania e Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale) ma altre volte innesca una guerra civile (Iraq, per un lungo periodo, dopo l’invasione americana del 2003). Nel caso dell’Iran un regime come quello degli Ayatollah, usurato, delegittimato, difficilmente potrebbe oggi rafforzarsi a causa dell’attacco israeliano. L’intervento esterno, e i pesanti costi che esso infligge al Paese, possono piuttosto favorirne l’ulteriore usura. Assai difficilmente, però, ne causeranno il crollo e la sua sostituzione con un regime diverso.
Se l’intervento militare esterno (da solo) non può provocare il regime change, non possono nemmeno riuscirci (da sole) le manifestazioni di protesta. È soltanto un’idea romantica che circola in Occidente quella secondo cui le proteste di piazza (si tratti di Iran, di Turchia o di qualunque altra dittatura) possano causare la caduta di un regime. Le manifestazioni di piazza, per lo più, vengono represse nel sangue, punto e basta. E allora, cosa può provocare un regime change? L’esperienza accumulata dice che i regimi dittatoriali per lo più crollano quando si verifica una spaccatura, radicale e insanabile, all’interno delle classi dirigenti che li sostenevano.
Si calcola, ad esempio, che su 316 casi di dittature crollate fra il 1946 e il 2008, nella schiacciante maggioranza dei casi (due terzi del campione) il dittatore e la sua cricca siano stati rimossi da persone e gruppi interni alla classe dirigente su cui il dittatore si appoggiava.
L’intervento militare esterno, a volte, può funzionare da miccia ma l’esplosione dipende dalle dinamiche interne al regime e, segnatamente, da ciò che accade nei rapporti fra le varie cricche o fazioni che compongono la sua classe dirigente. Occorre che una fazione (di peso, non marginale) decida che è arrivato il tempo di cambiare cavallo, che è giunta l’occasione per favorire un mutamento di regime e, naturalmente, per assicurare a se stessa una posizione di rilievo nel regime che verrà. Ma ciò non basta. L’eventuale fazione «traditrice» deve anche essere dotata di sufficienti strumenti di violenza, di una forza armata con cui sconfiggere le fazioni fedeli al regime a loro volta dotate di strumenti di violenza. I Pasdaran e altre milizie armate al servizio di Khamenei devono potere e status al regime. Se esso crollasse ne uscirebbero annientate. È opinione degli esperti di Iran che difficilmente accetterebbero di deporre le armi, di lasciarsi disarmare senza combattere. O la fazione della classe dirigente che, eventualmente, voglia mettersi alla guida di un cambiamento di regime riesce a tirare dalla propria parte gruppi adeguatamente armati al fine di neutralizzare i difensori dello status quo oppure verrà rapidamente sconfitta e i suoi membri arrestati, epurati.
Nemmeno la situazione dell’Iran è paragonabile a quella della Siria e al recente abbattimento della sua dittatura. Nel caso siriano, al termine di una lunga guerra civile, la caduta del regime di Assad è stata provocata dall’azione di una coalizione di gruppi armati, composti da combattenti esperti e sostenuti da potenze esterne.
La conclusione è che per capire se e quando il regime degli Ayatollah crollerà occorrerà, come da sempre fanno gli specialisti occidentali di quel Paese (sia gli studiosi indipendenti sia i servizi di intelligence), tenere d’occhio le eventuali crepe che si apriranno, se si apriranno, nei ranghi della sua classe dirigente. Se e quando tali crepe si manifesteranno e se risulteranno sufficientemente larghe, allora forse assisteremo a un regime change.
Se è assai dubbio che l’azione militare di Israele possa provocare da sola il crollo del regime iraniano (a meno, per l’appunto, di divisioni forti entro la sua classe dirigente), può invece – questo sì – provocare un pesante ridimensionamento del suo ruolo internazionale, può comprometterne lo status di potenza regionale. Non è detto che ci riesca ma forse può impedire all’Iran di diventare in tempi rapidi una potenza nucleare. Può, inoltre, indebolire la sua capacità di sostenere gruppi armati esterni. Per esempio, un serio ridimensionamento della forza militare dell’Iran potrebbe riflettersi in una drastica restrizione delle capacità di manovra degli Houthi (alleati dell’Iran) nello Yemen. A vantaggio del loro storico nemico, l’Arabia Saudita. Per non parlare del fatto che potrebbe anche essere indebolita la capacità dell’Iran di continuare a rifornire la Russia dei droni che le servono per colpire l’Ucraina.
Occorre comunque diffidare della semplicistica idea secondo cui sia sufficiente un intervento militare esterno per provocare un mutamento di regime.