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 2025  giugno 17 Martedì calendario

Intervista a Ferzan Ozpetek

In Italia non si è mai sentito «straniero», e adesso, dopo quasi 50 anni di vita nel nostro Paese, può dire che il suo è stato un «grande amore corrisposto» e che «la terra che consideriamo nostra è quella in cui ci troviamo bene, per questo tendiamo sempre a fermarci lì». Il suo ultimo film Diamanti, venduto in 60 Paesi, visto da oltre 16 milioni di spettatori, è stato premiato ieri sera, al Museo Maxxi di Roma, con il Nastro di film dell’anno del Sngci: «Mi sono chiesto – riflette Ferzan Ozpetek – perché sia piaciuto tanto. Credo che abbia pesato l’autenticità dell’ispirazione, visto che ho passato la giovinezza nelle sartorie e facendo amicizia con chi ci lavorava. Poi, però, nel racconto, vedo che si riconoscono in tanti, e questo non me l’aspettavo proprio. Ovunque vado, dopo Diamanti, avverto un affetto forte».
Secondo lei perché?
«Credo che abbia a che vedere con la mia mania per la condivisione. Se descrivo un’emozione, è perché l’ho avvertita anch’io e questo arriva al pubblico. Quando succede è la più grande delle soddisfazioni».
Quali sono stati gli incontri fondamentali della sua vita?
«Vari. Nel lavoro, quello con Julian Beck del Living Theatre. Studiavo all’Accademia Silvio D’Amico, grazie a lui ho capito che, nelle messe in scena, si potevano coinvolgere persone che non avevano mai recitato prima. Poi ci sono stati i registi, da Massimo Troisi, di cui sono stato assistente volontario, che mi ha fatto capire un sacco di cose, al direttore della Quinzaine des realisateurs che, nel 1997 decise di selezionare il mio film d’esordio, Il bagno turco. Ho avuto la notizia da Marco Risi, che era il produttore... Andammo a Cannes, lì capii che la mia esistenza era arrivata a una svolta, il film era stato venduto ovunque, le critiche erano stupende. Un altro momento fondamentale coincise con l’uscita dell’articolo di Goffredo Fofi, critico severissimo, su Panorama, titolo Una luce sul Bosforo. E poi ricordo ancora quanto mi aveva colpito una telefonata di Bernardo Bertolucci».
Cosa le disse?
«Mi chiamò per dirmi che il titolo che stavo scegliendo per il mio film non andava bene. Avevo deciso di chiamarlo Le finestre di fronte, mi fece capire che doveva essere al singolare, La finestra di fronte. Rimasi impressionato, un uomo così importante, che si preoccupa del titolo di un mio film».
A Mara Venier la lega un affetto speciale. Da cosa nasce?
«Ci somigliamo tanto, abbiamo entrambi un carattere aperto, non ci sentiamo importanti, ci divertiamo un sacco, è la mia amica del cuore. La incontro da anni la mattina dal panettiere, un giorno mi è venuto in mente di affidarle una parte nel film, lasciandola così come la vedo la mattina, senza trucco, senza niente. Lei si è affidata, e sul set ha mostrato una sensibilità particolare. Come me, nella vita reale, ha i suoi guai, però la prende come faccio io».
Cioè?
«Sul mio whatsapp c’è una frase “sii sempre gentile con le persone, perché non puoi mai sapere cosa portano dentro, quali siano i loro dolori"».
La morte è spesso presente nelle sue storie. Perché?
«Vivo molto tra vivi e morti. Se mi capita di mangiare una cosa buona che sarebbe piaciuta molto a chi non c’è più, mi commuovo. Oppure vado a fare la spesa e mi succede di pensare “ecco lui avrebbe comprato questo”. Insomma, sento molto la presenza di chi non c’è più. È una cosa un po’ folle, ma non riesco a rinunciare a questa dimensione sospesa, tra qui e aldilà».
Ha rimpianti?
«Non so se è un vero rimpianto… parlo del mio film La finestra di fronte, mi chiama Giovanna Mezzogiorno, che era a Los Angeles, e mi dice che devo assolutamente andare lì anche io, perché tutti parlano di me. Non sono andato».
Cosa l’ha bloccata?
«Forse il fatto che ero arrivato in Italia dalla Turchia e un altro viaggio mi sembrava troppo faticoso. E poi c’è anche un’altra ragione… dico sempre che bisogna prendersi il tempo di vivere la propria vita. La vita viene prima».
Si sente diverso rispetto a quando era ragazzo?
«Non molto. Purtroppo mi considero ancora, molto spesso, una nullità. Viene dall’infanzia, non mi sento mai importante né speciale, non mi vedo come gli altri mi vedono, forse ho avuto sempre un complesso di inferiorità. Dopo Le fate ignoranti sono andato in analisi, il terapeuta mi disse che avevo girato film geniali, io continuavo a rispondergli che erano venuti così per caso. Ho capito, solo dopo, che io lavoro seguendo l’istinto e che, così facendo, annullo la distanza tra me e lo spettatore. Quando giro, in realtà, tolgo di mezzo il regista, divento come il pubblico. E forse questa è la mia forza».
Quali sono le abitudini di cui non può fare a meno?
«Tante. Ho le mie manie e i miei portafortuna. Prima di tutto un San Gennaro che porto sempre con me, poi devo entrare nei posti usando sempre per primo il piede destro, e anche portare addosso qualcosa di arancio… penso che siamo un po’ tutti come indiani d’America, non abbiamo sicurezze, ci affidiamo agli amuleti.
Loro guardavano le nuvole per capire quello che stava per accadere, anche noi facciamo un po’ così. C’è un’altra cosa, cui tengo molto».
Quale?
«Non fare mai agli altri qualcosa che non vorresti fosse fatto a te. È il mio credo, la mia filosofia di vita quotidiana. Forse viene dalla famiglia di mia madre, dalle tante donne con cui sono cresciuto».
Cosa la preoccupa di più in questo momento storico così tormentato?
«Il futuro delle persone. La vita è breve come un respiro, trovo assurdo che si possa provocare, con delle leggi, l’infelicità degli individui. Vorrei che tutti potessero stare bene e nessuno provasse ad impedirlo».