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 2025  giugno 15 Domenica calendario

Intervista a Elvio Carrieri

Diciamo la verità, se hai 19 anni non scrivi un romanzo pensando di farcela; non scrivi su un paio di trentenni teneri e sfigati senza la temerarietà di raccontare quello che forse un giorno rischierai di diventare. Meglio allora continuare a occuparsi di poesie che pochi leggeranno o suonaremusica per qualche amico che ti ascolta.
Pensavo a questo quando ho cominciato a leggere il romanzo di esordio di Elvio Carrieri; ma poi ho provato un moto di stupore. Era come immaginare un giovane Holden invecchiato e disilluso che ha smesso di sognare. Il sogno di Carrieri, del suo protagonista Libero e del suo sodale che si fa chiamare Plinio il Vecchio, naufraga nel mare di Bari e non è solo un’immagine, è un pensiero fisso che questo giovane scrittore porta con sé, come la trama di un vecchio film ambientato in una città stravolta e mutata. Poveri a me– edito da Ventanas – era entrato un po’ a sorpresa nella dozzina dello Strega, ma non ce l’ha fatta a passare alla cinquina. Elvio non se l’è presa più di tanto. Ha già voltato pagina con la velocità che gli è consueta.
Ti sei occupato, giovanissimo, di poesia e musica.
Ora il romanzo. Mi sembra tanta roba.
«Vista da fuori forse lo è. In realtà, sono uno che scrive un po’ di versi e suona la chitarra. Mi piacevano Dante, Baudelaire e Leopardi. Percezioni mentali “sporcate” dagli assoli di Eric Clapton e Jimmy Page. Loro mi hanno salvato da un’adolescenza troppo cervellotica.
Ad oggi mi considero, perciò, un buon chitarrista, un poeta senza architettura, un narratore incosciente. Mi aspettavo di essere ignorato, come è un po’ salutare che sia».
La leggenda dice che hai scritto “Poveri a noi” in meno di dieci giorni. Un capitolo a notte. Insomma: insonnia e furore.
«Per la verità in otto giorni. Però la notte dormivo. Mi alzavo la mattina e producevo non meno di ventimila battute giornaliere perché voleva essere una sfida, una corsa contro il tempo. Alla fine avevo novanta cartelle.
Le ho festeggiate insieme ai miei diciannove anni, andando a Caserta a sentire Steve Hackett suonare il suo rock».
La scrittura veloce ti espone. Quanto correggi e quanto accetti che siano gli altri a correggerti?
«A distanza di mesi dalla stesura a forza di correzioni ho rischiato di mandare tutto all’aria. Mi fotte la verbosità che è associata all’eccesso di zelo che a sua volta poggia su un noioso intellettualismo di base. Ben vengano dunque le altrui correzioni. Ma se sono convinto di un periodo non lo tocco manco con pistola alla tempia».
Quanto Libero e Plinio, i due protagonisti, rispecchiano i trentenni di oggi?
«Libero e Plinio sono un nevrotico e un “priso”, indialetto pugliese un reietto, un buono a nulla. Non credo che esprimano minimamente i trentenni di oggi. Dopotutto, penso che il compito della letteratura non sia quello di rappresentare. Almeno non in maniera cosciente e autoimposta».
Libero sceglie di insegnare in un carcere. Descrivi un mondo duro senza redenzione.
«Forse perché ho letto molto Milo De Angelis, lui ha insegnato nelle carceri. O forse perché avevo una bella casa circondariale piazzata a pochi minuti da casa mia. Mi dava da pensare quel mondo separato. Dove la parola futuro si lega raramente alla parola riscatto. E allora ho immaginato che potesse entrarci una storia d’amore».
Tra Libero e Letizia. Nel carcere lei fa la psicologa.
Viene dalla provincia e parla spesso in dialetto. Non ha angosce.
«Letizia è l’opposto della femme fatale. Non si atteggia. Il suo intercalare è il dialetto con cui ravviva la lingua e l’azione. Serviva un personaggio esterno, paesano, sanissimo, a infastidire l’autocompiacimento cittadino di Libero e Plinio».
Il sesso è una componente del romanzo.
«InPoveri a noi il sesso è una forma di spreco, di fantasia debordante. C’entra molto la lettura che ho fatto di Bataille. Ma non oso esprimermi sulla sua idea di erotismo».
Racconti la sessualità di un trentenne.
«In realtà racconto la sessualità di un personaggio che si muove, parla e fa sesso come un sessantenne. Una figura, per capirci, anagraficamente straniante.
Pensavo a Philip Roth. Purtroppo non siamo tutti come Roth. Anche se vorremmo esserlo».
Ritieni che in lui il sesso sia centrale?
«È il motore vitale e ossessivo capace di dare forma alla vita erotica e sentimentale di David Kepesh, protagonista di una trilogia che si conclude conL’animale morente. Ma Kepesh non somiglia a Libero.
Come non somiglia alla miriade di romanzi che si scrivono sui giovani che scoprono la libido o attraverso il trauma o mediante pratiche libertine».
Non ho capito se Roth, tornato in grande spolvero, ti piace o no.
«È fin troppo facile innamorarsi della sua letteratura».
Su quali letture ti sei formato?
«In ordine sparso direi Catullo, I fiori del male, la Commedia, i Canti orfici e quelli leopardiani, Montale, ma anche il Pasticciaccio di Gadda, la Settologia di Jon Fosse e Don DeLillo. Direi che per fortuna mi stanno ancora formando».
Ho notato che in “Poveri a noi” ignori i social, l’intelligenza artificiale, l’invasione della tecnica. È snobismo o cosa?
«Non direi snobismo. Oltretutto sono cose che ho studiato in filosofia grazie al mio professore di liceo che ci mise in mano libri di Luciano Floridi, Éric Sadin, David Lyon. Ma non ero pronto per utilizzarle in un contesto narrativo. Il rischio che avrei corso è la banalizzazione di un tema che governerà le nostre vite. Anzi già le domina».
Com’eri a scuola?
«Insopportabile, spesso sopra le righe. Perché magari troppo bravo nelle materie letterarie e scarso o disinteressato in quelle scientifiche. Oltretutto ero in un liceo scientifico e fin dal primo anno mi sono sentito fuori posto».
E da bambino?
«Ho spesso combattuto con il problema dell’età. Più ero piccolo e più sentivo il desiderio di fare cose da grandi».
Ancora oggi è così?
«Molto meno. Mi è restato il bisogno di cercare
amicizie in qualche generazione più grande di me».
Quanto hai messo della tua vita nel romanzo?
«Non molto, a dire il vero. O forse mi sono frammentato così tanto in vari luoghi e personaggi che faccio fatica a ricomporre i pezzi».
Forse il tuo timore è di poter diventare tra dieci anni come Plinio o Libero?
«Alcuni pezzi di Plinio e Libero sono già dentro di me.
Qualcuno ha detto che Foscolo scrisse Le ultime lettere a Jacopo Ortis, per far morire la parte peggiore di sé.
Ecco, forse ho scritto di Libero e Plinio per mettere a tacere quello che non va in me».
Cosa esattamente?
«Ho paura del fallimento controllato di Plinio e delle nevrosi di Libero. Mi è accaduto a volte di farmi pena.
Quando per esempio ho comprato la prima chitarra o quando sono entrato alle scuole medie. E ora, mi sono chiesto, che accadrà? In queste circostanze prevale in me un senso di inerzia e inettitudine, come i miei protagonisti».
L’altra protagonista che fa da sfondo è Bari, che racconti tra repulsione (tanta) e attrazione (poca).
Quale anima ne viene fuori?
«Viene fuori una perfetta coscienza infelice, una città alienata da sé stessa, che cerca la sua anima nella storia senza riuscire a trovarla».
È la tua città: che legame conservi, chi frequenti?
«Frequento tanti musicisti, di solito più grandi, e pochi coetanei, non per mia scelta. Tendenzialmente stobene seduto a un tavolo all’aperto fino a tardi. Di Bari mi attrae morbosamente l’architettura stonata. Ne parlo male ma uno degli effetti imprevisti del romanzo è la mia riappacificazione con la città».
Si discute molto del risveglio della Puglia: il turismo dilagante nella Valle d’Itria e nel Salento. Un’onda distruttiva che mi pare denunci.
«È una situazione drammatica. Posso solo dire che mai ho visto accompagnarsi a tante belle parole, che celebrano la mia terra, altrettanta ipocrisia. Mentre gli ulivi continuano a morire e le ville Liberty ad essere abbattute di nascosto, trionfa – nel nome della masseria – un turismo fanatico e ignaro di tutto».
In un ipotetico bestiario barese, quali tratti animali ti riconosci?
«Per dirtelo in dialetto sono chiangone ma pure un po’ cornuto. Non so ancora se sono un priso».
Tradotto?
«Pesante, a volte noioso, un po’ furbo. Ma spero non proprio da scartare».
So che passi parecchio tempo a stilare liste e a fare elenchi. Vorrei capire meglio questa tua attitudine classificatoria: serve per ciò che scrivi? Per orientarti meglio o cosa? Eco era molto attratto da questo metodo di lavoro.
«Catalogare è la principessa delle mie nevrosi: la venero ma so che un giorno mi distruggerà. Non c’è un fine pragmatico se non quello di riassumere in liste personali ciò che mi interessa davvero nel delirio delleinformazioni online: musica e letteratura, con minor rigore cinema e arte figurativa. Sono liste talmente grandi e complicate da richiedere manutenzione, aggiornamenti e attenzione ossessiva».
A quale scopo?
«Catalogo e voto i libri che leggo, li divido per genere e per lingua, così come gli album che ascolto, gli scrittori che vorrei leggere e che ho letto, divisi per ceppo linguistico in ordine cronologico, nazionalità e così via. Ho tutto sulle note del telefono, le liste sono il mio bene più prezioso».
Studi all’università, cosa?
«Sono al secondo anno di lettere moderne. Non ho ancora iniziato la magistrale in filologia».
I tuoi genitori sono chimici. Come vivono la tua dimensione di novello scrittore?
«Uno insegna analisi farmaceutica, l’altra è una chimica del farmaco. Sono certo che la vivano bene, sono felici. Vorrei leggessero di più, e di certo non le cose che scrivo io. Ma mi rendo conto che la letteratura oggi è sempre più una cosa settoriale. D’altronde loro non hanno interferito con ciò che volevo fare, chi sono adesso per chiedere a uno dei due di dirmi la sua su Marcel Proust?».
Cosa pensi della letteratura?
«Penso sia inutile, l’arte è inutile».
Intendi dire che per quanto successo tu possa avere, c’è una parte di te non commerciabile?
«Di successo non parlerei. La verità è che se ci penso è per esorcizzare un certo senso di inutilità».
Ricordi il famoso incipit di “Aden Arabia” di Paul Nizan: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che è l’età più bella”. Cosa sono i tuoi vent’anni?
«Cito questo incipit in continuazione e spesso mi scontro con chi mi accusa di non vivere come dovrei il periodo d’oro della gioventù. I miei vent’anni sono questo: ribaltare o perlomeno porre in discussione l’assunto di quel maledetto cornuto di Mimnermo, che ha inventato il mito della giovinezza e così facendo l’ha caricata di aspettative rognose. Nella mia testa suonava meno pretenzioso».
In fondo possiamo immaginare il tuo Libero come un giovane Holden 15 anni dopo. Quando le fughe finiscono, e i viaggi di iniziazione si trasformano in rancore e nostalgia per ciò che si è perduto.
«Ho una sensazione di incipiente disordine mescolata alla sindrome dell’impostore. Sono l’intruso che si sentirà ridicolmente al culmine, quando avrà scritto di nuovo una bella pagina. Ora mi sento sul crinale di una catastrofe ma di fuggire non se ne parla. Preferisco rileggermi l’incipit di Aden Arabia».