repubblica.it, 17 giugno 2025
Maturità 2025, il premio Nobel Giorgio Parisi: “Vi racconto il mio esame, anche io copiai un po’”
La preparazione aveva seguito criteri scientifici. Il giorno della prova di matematica Giorgio Parisi, futuro premio Nobel, sedeva al centro dell’aula. Dietro di lui c’era l’unico compagno in grado di decifrarne la scrittura, che si sarebbe occupato di tradurre e distribuire la soluzione alle ali. “Funzionò, ebbi anche il tempo di risolvere il problema con due procedimenti distinti in modo che i compiti copiati non fossero identici” ricorda oggi il fisico della Sapienza e dell’Accademia dei Lincei, Nobel per la fisica nel 2021.
Tutto liscio quindi alla Maturità?
“Per la mia classe non tanto. Capitammo con una commissione severa e ci furono diversi bocciati. Io ebbi la media dell’otto, ma solo perché fui aiutato a mia volta”.
Ebbe bisogno di copiare?
“Ero una scarpa in disegno. Il giorno della prova abbozzai qualche linea, poi passai il foglio al più bravo della classe. Lui, rapidissimo, me lo restituì con un disegno da nove, un voto incredibile per me, più alto anche di matematica e fisica. Compensò l’unico sette che avevo preso, non ricordo bene, forse in educazione fisica”.
Ci riporta a quel tempo?
“Era il 1966, avevo iniziato le elementari a cinque anni, quindi arrivai alla maturità scientifica a 18 anni. Fin dalle medie ero iscritto all’Istituto San Gabriele di viale Parioli, a Roma, una scuola privata e religiosa. Gli insegnanti però erano laici, a eccezione del professore di filosofia”.
Le classi erano solo maschili?
“L’intera scuola era solo maschile, ma il pomeriggio uscivamo e ci rimescolavamo. Oltre agli amici di classe avevo quelli del mare. La mia famiglia aveva l’abitudine di trasferirsi ad Anzio dal 15 giugno al 15 settembre e avevamo formato un bel gruppo. È lì che nel ’66 ho preparato la maturità”.
Studiando al mare?
“La scuola era finita a maggio. Mi trasferii ad Anzio da solo. Gli amici non erano ancora arrivati e mi trovavo in una situazione di tranquillità totale. Studiavo, facevo un bagno, pranzavo, riposavo e riprendevo a studiare. Furono quindici giorni di concentrazione piena”.
Quindi è arrivato tranquillo agli esami?
“Niente affatto. Portavamo tutte le materie agli orali, incluse parti del programma degli anni precedenti. Non ero in ansia, ma mi rendevo conto che bisognava prepararsi davvero bene. Anche così, con dei commissari esterni sconosciuti e imprevedibili, sarebbe bastato poco per inciampare. Per molti anni in seguito ho avuto l’incubo ricorrente della maturità”.
Eppure non le sono mancati gli esami difficili nel corso della vita.
“La maturità occupa un posto speciale”.
Diventato professore non si è sentito in colpa per aver copiato a scuola?
“Non era considerato un atto riprovevole. I professori facevano di tutto per impedircelo e noi facevamo di tutto per eludere la loro sorveglianza. Era un gioco delle parti. Se eri abbastanza furbo da non farti notare, allora andava bene così”.
Che clima si respirava nel 1966, c’era già fermento politico?
“No, non al liceo. Si parlava delle vicende correnti, ma senza accalorarsi. Non avevamo colto alcun segnale del ’68 in arrivo. Ho incontrato la politica più tardi, all’università”.
Studiava molto?
“Non particolarmente, avevo buona memoria ed ero rapido con i compiti. Mi trovavo a mio agio con matematica e fisica, ma a eccezione del disegno andavo bene anche nelle altre materie. Non amavo l’italiano scritto, ricordo che i titoli dei temi allora erano molto retorici. Al di fuori della scuola mi piacevano gli scacchi e passavo molto tempo a leggere libri o studiare partite. Non ero un campione, ma ho partecipato a diversi tornei”.
Lei o la sua classe avevate una musica del cuore, un brano che ancora oggi le ricorda la maturità?
“Amavo studiare con la musica, ma avevo una radiolina portatile a transistor e ascoltavo semplicemente quel che trasmettevano. Mettere un disco avrebbe voluto dire sceglierlo, cambiarlo dopo venti minuti, invece la radio bastava accenderla. Mi divertivo molto quando c’era Alto Gradimento”.
Il rapporto fra ragazzi e professori era formale?
“A seconda del docente. C’era chi riusciva a farsi rispettare, il professore di fisica invece era appena laureato e non sapeva tenere la classe. Ricordo che avevamo un terrazzo accanto all’aula e un giorno i miei compagni trascinarono la cattedra lì, fuori dalla finestra. Ci volle l’intervento del preside per riportare la calma”.
Cos’altro combinavate?
“Usavamo le fionde in classe. Una volta lanciammo un oggetto, mi pare fosse di metallo, fuori dalla finestra. È difficile da credere, ma attraversò la strada e si infilò nella finestra del palazzo di fronte, poi centrò la vaschetta dell’inchiostro di un architetto che stava preparando un progetto. Gli schizzi sporcarono tutto, l’architetto furioso riuscì a individuarci e ci beccammo l’ennesima ramanzina”.