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 2025  giugno 17 Martedì calendario

Sulla politica estera l’Italia è la più divisa

Forse mai come nelle ultime settimane il Parlamento è stato così diviso sulla politica estera. Qualcuno dirà che c’è di peggio, dal momento che i punti di disaccordo tra maggioranza e opposizione sono profondi in altri ambiti, dall’economia alla sanità agli interventi per la sicurezza pubblica. Tutto vero, ma colpisce la divergenza sulla crisi internazionale. È cominciata con la guerra russo-ucraina, proseguita con le polemiche sul riarmo europeo, si è accesa con il Medio Oriente – dal pogrom antisemita del 7 ottobre 2023 alla tragedia di Gaza –, e infine la frattura ha toccato l’apice con l’attacco israeliano a Teheran.
Non c’è, a quanto sembra, un altro paese europeo in cui la politica si divide in modo così netto di fronte a una crisi internazionale che coinvolge da vicino le istituzioni e sollecita sul piano emotivo l’opinione pubblica. Ovunque si tende a offrire un’immagine di relativa concordia perché si tratta di sostenere l’interesse nazionale. Da noi, no. La politica estera è quasi sempre l’occasione per una polemica provinciale in cui ci si sforza di ottenere qualche vantaggio di breve momento a scapito dell’avversario di turno. È una gara a cui partecipano quasi tutti, a destra come a sinistra, e che offre il meglio di sé nell’arena dei “talk show” televisivi. Del resto, siamo il paese numero uno in Europa per numero e intensità di queste risse via tubo catodico: sono costruite per esaltare le tesi più radicali, quelle espresse con i toni più ruvidi, affidate agli slogan più che a ragionamenti logici per il quale non c’è mai tempo e spazio.
Dall’omicidio di Garlasco alle bombe sui siti nucleari dell’Iran, tutto si mescola e la comprensione del telespettatore tende ad affievolirsi. Alla fine ha ragione chi ha insultato con maggiore vigore. O chi ha esposto la tesi più inverosimile, ma offerta con gli argomenti più perentori. Un minimo di onestà intellettuale dovrebbe suggerire di non esagerare, da una parte o dall’altra. I binari entro cui corre il treno italiano sono all’incirca sempre quelli. Non esiste, né è mai esistita, una politica estera alternativa a quella a cui si acconciano tutti i governi. Esistono sfumature, accenti, magari retoriche diverse, tuttavia l’Italia media potenza conta per quello che è. Il “sovranismo”, quando entra nei palazzi romani, tende a evolvere in un conservatorismo abbastanza inoffensivo, come si è visto con il rapporto fra la Meloni e la presidente democristiana tedesca della Commissione.
Si, ci sono gli Orbán, i Fico, ma non sono in grado d’imporre un modello nazionalista che sia credibile.
L’inglese Nigel Farage è l’unico ad aver ottenuto un risultato fragoroso, ma adesso è da vedere se riuscirà a conquistare la maggioranza ai comuni. Senza questo passaggio, non potrà cantare vittoria sul serio.
Quanto alla premier italiana, è troppo accorta per diventare lo strumento di Trump contro gli assetti dell’Unione. È ciò che sognano le opposizioni, ma assomiglia a un gioco un po’ infantile. L’Italia isolata, l’Italia burattino del mondo maga. Non sembra che le cose vadano in questa direzione. D’altra parte, il centrosinistra non può trasformarsi in quello che talvolta sembra: una coalizione pronta a sostenere le ragioni di Teheran e del suo oscurantismo religioso contro l’opportunità di un “cambio di regime” nella terra degli ayatollah. In passato il presidente della Repubblica ha saputo far sentire il suo peso di regolatore della politica estera. Non c’è dubbio che saprà farlo di nuovo all’occorrenza. Per ora osserva la mediocrità del dibattito. C’è peraltro un terreno su cui l’Italia si muove con disinvoltura. È il rapporto con Ankara con le sue proiezioni in Africa del nord ma anche con le repubbliche asiatiche, ben coltivate dalla premier. Uno scenario meno appariscente del circuito europeo, ma che potrebbe rivelarsi utile se la crisi dovesse proseguire e inasprirsi sul piano energetico.