La Stampa, 16 giugno 2025
Intervista a Luigi Ciotti
Don Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, lei è conosciuto da tutti per il suo impegno civile, ma com’era il bambino Luigi?
«Il ricordo più vivo di quel periodo risale al 23 maggio 1953, quando una tempesta violentissima si abbatté su Torino, spezzando la guglia della Mole Antonelliana. E scoperchiando il tetto della “baracca” di servizio dove allora abitavo insieme alla mia famiglia, dentro il cantiere del Politecnico. Mia madre mi strinse forte a sé insieme alle mie sorelle, mentre le lamiere volavano via. Quel gesto di soccorso istintivo, con le sue braccia a rappresentare la forma più basilare di protezione, mi è tornato alla memoria tante volte, di fronte a persone alle prese con tempeste ancora peggiori, reali o esistenziali».
Ricorda il momento in cui ha sentito la chiamata al sacerdozio?
«Ricordo soprattutto quando sacerdote lo diventai, consacrato da Padre Michele Pellegrino, Arcivescovo di Torino, che mi affidò come parrocchia “la strada”. Oggi mi imbarazza essere considerato un prete diverso dagli altri e provo immensa stima per i sacerdoti alla guida di parrocchie difficili, che si caricano sulle spalle storie di vita, fatiche e bisogni enormi, sia materiali che spirituali».
C’è stato un maestro, un amico, un incontro che ha segnato la sua vita più di altri?
«Gli incontri sono stati la più grande ricchezza della mia vita! Infatti non mi piace avere l’attenzione focalizzata su di me, perché è il “noi” il protagonista dell’impegno che porto avanti. Senza le persone preziose che ho incontrato lungo il cammino, non avrei realizzato nulla. E la prima di queste persone è stato un “barbone” su una panchina di corso Vittorio. Avevo 17 anni e avrei voluto aiutarlo, invece mi spronò a guardarmi intorno, per accorgermi di tanti miei coetanei che più di lui avevano bisogno di aiuto».
Ci racconta un aneddoto personale che mai ha svelato pubblicamente?
«È una cosa che ho saputo io stesso solo di recente: a metà degli anni ’70 stavo per essere arrestato! Un investigatore della Polizia aveva scoperto che un sacerdote si aggirava nella zona di Porta Nuova avvicinando i giovani tossicodipendenti. Sospettava che fossi uno spacciatore… Il dottor Antonio Baranello, allora Vice Dirigente della Squadra mobile, lo convinse ad approfondire le indagini prima di procedere al fermo. E per fortuna si capì che il mio scopo era esattamente il contrario! Cioè conquistare la fiducia di quei giovani per provare ad allontanarli dalle droghe. È un problema di cui oggi si parla meno ma che è ancora estremamente diffuso, in tante forme. Non solo dipendenza dalle sostanze ma anche dal cibo – nella forma dei disturbi alimentari – dal web o dal gioco d’azzardo. Per questo col Gruppo Abele continuiamo a studiare progetti innovativi per rispondere alle nuove fragilità. Anche se nessuno pensa più di arrestarci, è comunque difficile trovare i fondi e gli spazi per portarli avanti».
Che cosa significa oggi essere «anti-mafiosi»? E che cosa vuol dire essere «liberi»?
«Siamo liberi se sappiamo fare scelte consapevoli e responsabili. E quando capisco che la mia libertà è strettamente legata a quella degli altri, sarò per forza contro le mafie e la mafiosità in generale, cioè l’atteggiamento di chi è pronto a calpestare vite e diritti altrui nel nome del profitto. Essere anti-mafiosi significa promuovere quei valori democratici – giustizia, solidarietà, trasparenza – che fanno da argine al dilagare della criminalità organizzata e anche di quella “legalizzata”, che è poi qualsiasi forma di gestione del potere svincolata dall’etica».
Come ha accolto l’elezione di Leone XIV?
«Robert Prevost è stato chiamato in Vaticano da Papa Francesco, che lo stimava profondamente. Già questo mi dà fiducia. L’altro elemento è la scelta del nome, che si richiama a Leone XIII, iniziatore della Dottrina sociale della Chiesa. E per ora mi ha colpito il richiamo frequente al tema della pace, che è centrale nelle nostre preoccupazioni e speranze. Ma anche quello a “una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina”, cioè quella comunità che discute e decide collegialmente e che si apre al mondo esterno, sul modello della Chiesa “in uscita” ereditata da Francesco».
Che cosa si aspetta da Leone XIV su temi come giustizia sociale, lotta alla corruzione, accoglienza dei migranti?
«Il Conclave ha eletto il successore dell’apostolo Pietro, non del Papa precedente. Ma è evidente che chi ha apprezzato Bergoglio spera in una continuità con le sue posizioni. Cioè una denuncia sempre chiara e circostanziata dell’oppressione dei poveri, della persecuzione dei migranti e delle minacce all’ambiente. Ci sono dei percorsi di riflessione e riorganizzazione inaugurati da Papa Francesco che speriamo siano portati a compimento. E c’è però una persona diversa, con il suo personale carisma, che quindi forse ci condurrà verso quelle stesse mete per altre strade».
L’Italia sembra attraversare una stagione segnata anche da chiusure e paure. Che responsabilità ha la politica?
«Mi pare una politica succube del consenso, cioè più attenta a costruire un futuro per se stessa che non per il Paese. Una politica che quindi fa leva sulle preoccupazioni della gente invece di provare ad affrontarne le cause. Così i problemi restano lì, e passa l’idea che alcune situazioni – povertà crescenti, precarietà del lavoro, tagli alla sanità, sovraffollamento delle carceri, solo per citarne alcune – siano immutabili. Invece, l’avvenire è dove scegliamo di andare. Siamo noi a decidere che forma dare al nostro tempo, se quella della paura o della speranza! Dobbiamo ritrovare fiducia negli strumenti della democrazia, a partire dal voto, ed esigere una politica che sappia trasformare le situazioni critiche, non cavalcarle a fini elettorali. Il referendum sarà in questo senso un bel banco di prova: speriamo che gli elettori prendano con decisione la parola!».
Come valuta l’atteggiamento dell’Italia rispetto al Mediterraneo e alla questione migratoria? E l’Unione europea?
«Stiamo andando alla deriva. Una deriva etica e politica. Insieme ai barconi lasciamo naufragare i principi che hanno ispirato la nostra Costituzione, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e l’Unione europea… Il dovere del soccorso e dell’accoglienza dovrebbe venire prima di qualsiasi legge, come impulso primario dell’essere umano verso i suoi simili. Ma noi stiamo cancellando ogni traccia di umanità dalle leggi e dalle pratiche, quando decidiamo che una persona sofferente debba essere respinta o incarcerata, meglio se lontano dai nostri occhi, in Paesi compiacenti che per soldi accettano di fare “il lavoro sporco": ma davvero pensiamo che questo possa lasciarci pulita la coscienza?».
Lei incontra spesso i giovani: che cosa chiedono, temono, sognano?
«I giovani sono portatori di diversità, di energie e di vita. Purtroppo però oggi percepisco un grande malessere fra di loro, dovuto anche al senso di incertezza verso il domani. Tagli all’istruzione, precarizzazione del lavoro, welfare familiare azzerato: ai giovani si nega il futuro e intanto si grida allo scandalo se da quel futuro mortificato nascono comportamenti anti-sociali. Dobbiamo allora prima di tutto farci delle domande sulla società che stiamo costruendo: una società che tende a espellere i più fragili per non guardare alle proprie fragilità, alla povertà di senso e prospettive che la tiene bloccata. Ma poi anche inventarci spazi e strade per accogliere chi si sente respinto, inascoltato. Al Gruppo Abele abbiamo servizi innovativi per i giovani dipendenti dal crack o chiusi nelle proprie stanze, modelli studiati in tutta Italia che chiedono di essere replicati. Insieme alla sofferenza vanno però ascoltate anche le idee dei ragazzi, perché è necessario accoglierli nei loro percorsi inediti senza aspettarci che ricalchino i nostri stessi passi, compresi quelli sbagliati… A livello sociale e culturale, sono loro che possono fare la differenza!».—