corriere.it, 15 giugno 2025
Biografia di Danny Lazzarin
Il suo primo ricordo.
«Fine anni 80, case popolari. Per tutti ero “il figlio dei divorziati”, un’onta a quei tempi. I genitori dei miei amichetti non volevano che mi frequentassero».
Come ha vissuto la separazione dei suoi?
«Avevo due anni, ha lasciato un segno. Ricordo le sedute con lo psicologo, allora ancora un tabù. Lunghe chiacchierate dopo la scuola, mi sentivo quello sbagliato. Ai giovani di oggi vorrei dire di abbracciare le difficoltà, di non fuggirle. Vivranno momenti bui pensando che siano la fine. Io ci sono passato e ora eccomi qui».
Che padre è?
«Sto vivendo la cosa più bella del mondo cioè l’incertezza: non so come si faccia il papà, sono in mare aperto e combatto ogni giorno per strapparle un sorriso. Finché ci riuscirò, sarò contento».
Perché non la mostra mai sui social?
«Mi seguono molti ragazzi che hanno o che avranno un bambino. I brand per prodotti dell’infanzia mi hanno offerto decine di migliaia di euro per una foto o una promo. Ma guardandomi davanti allo specchio mi sono chiesto. “A questo siamo arrivati? A mercificare una bambina?”. Non ce la faccio, ho rifiutato. L’abbiamo cercata così tanto che ora è solo nostra e di nessun altro».
Prima di Matilde lei e sua moglie avevate perso un figlio.
«Non è facile parlarne, non sono ancora abbastanza forte. Deve passare più tempo».
Danny si commuove, seguono secondi di silenzio. Poi un sospiro. «Le hanno asportato una tuba, ci dissero che le possibilità che restasse di nuovo incinta si sarebbero dimezzate. Ma lei è stata una roccia, molto più di me. Ricordo quando mi ha detto di Matilde. Ero in camera, a letto. Ho pensato subito che sarebbe nata una femminuccia».
Il suo libro, «La strada fin qui», è dedicato a sua figlia.
«Non vorrei più leggere di un giovane che fa cose brutte perché non si sente accettato. Con i social i ragazzi di oggi osservano vite apparentemente perfette, fatte di soldi, successo, auto sportive. Tutto questo li porta a non sentirsi parte di quel mondo, si sentono dei perdenti e si autosabotano. Non voglio insegnare loro qualcosa, non so niente. Anzi, mi sento molto stupido. Cerco solo di dare un significato positivo a debolezze e fragilità».
Era bravo a scuola?
«Avevo dei bei voti, dopo il liceo avrei voluto fare l’università. Psicologia o letteratura».
E cosa è successo?
«Quando ne parlavo, mia mamma rimandava sempre. “Intanto finisci le superiori, magari cambi idea». Fuggiva dal discorso, non capivo perché. Alla fine, lo ammise. “La retta, i libri, il treno... tesoro, non possiamo permettercelo”. Oggi ne ridiamo, ma soffro al solo pensiero che si sia sentita umiliata».
Cosa decise di fare?
«Avevo 19 anni e una convinzione piuttosto macabra. “In Italia muoiono 700mila persone all’anno”, mi ripetevo. Apro un’agenzia di pompe funebri a Ospedaletto Euganeo, in provincia di Padova. Convinti dalla mia determinazione, mamma e Michele – il suo secondo marito – ipotecano casa per comprare il carro funebre e aprire il mutuo».
Un grande atto di coraggio.
«Il progetto non parte bene, dopo pochi mesi mi ritrovo con 80 euro in banca. Poi, una domenica, bussano alla porta. Finalmente un cliente, che si sente amato e coccolato da un ragazzino. La voce inizia a girare, la qualità del nostro servizio viene compresa. Di agenzie ne avrei aperte altre quattro».
Come è diventato un riferimento nel fitness?
«In ufficio guardavo i video degli americani, in Italia non c’era un modo di comunicare simile. Ho iniziato a farli anche io, raccontando esercizi e modalità di allenamento. L’avvento di Facebook poi mi ha dato una bella spinta».
Cosa è la palestra per lei?
«Un momento piacevole in cui riesco a stare con me stesso. Mi è sempre piaciuta la fatica fisica, così come il vedere il corpo che si trasforma. Ormai sono 22 anni che mi alleno tutti i giorni senza mai prendermi una pausa».
Perché oggi i giovani preferiscono la palestra ad altri sport?
«Sui social c’è una spinta sempre più crescente, poi è poco costosa, rispetto allo sci o al surf è a portata di mano e restituisce l’aspetto che desideri, facendoti sentire più sicuro con gli altri».
Lei da ragazzo era un insicuro?
«Dai 14 anni ho avuto forti attacchi di rabbia. Scattavo per un niente e quando si rompeva una cosa tendevo a spaccarla del tutto invece di aggiustarla. Questo lato del mio carattere emergeva anche con Elisa, che ci scherzava su. Grazie a lei sono cambiato leggendo e meditando».
Ha mai temuto di perderla?
«Più aumentavano i follower più ero concentrato nell’appagarli. Mi sono portato il lavoro a casa senza rendermi conto che lei non voleva più vivere quello che vivevo io. La stavo dando per scontata e mi ha svegliato. “Non sei più l’uomo che ho sposato, non ti interessa più del nostro futuro. Mi tiro fuori”. Oggi dopo le 19, quando torno a casa, non posto più storie o foto. Ho smesso di mostrare la mia vita privata».
Per lei l’imprenditore è?
«Un artista che crea per il piacere di creare. Se sei in gamba, c’è il compenso che però deve essere sempre reinvestito».
Lei lo ha fatto?
«Oltre alla palestra ho aperto un’azienda di abbigliamento sportivo e uno studio di consulenza fra i più grandi d’Italia. Non l’ho fatto per soldi, ma perché ce n’era bisogno. Il cliente che mi sceglie deve avere il massimo, dai macchinari alla cura. Il personal trainer che prende le misure a una donna, per esempio, non la deve mai toccare. Potrebbe crearle imbarazzo».
Ha tanto, forse troppo?
«In questa vita frenetica rischiamo di non ascoltarci, siamo una pallina all’interno di un flipper. Facciamo tantissime cose ma in automatico, annulliamo il nostro io. Ogni tanto mi chiedo. “Quando è stata l’ultima volta in cui ci siamo fermati chiedendoci cosa volessimo fare?”. Abbiamo il potere di decidere cosa fare e cosa non fare. Spesso però non lo capiamo».