il manifesto, 15 giugno 2025
La filiera dei festival, un’attrazione fatale
Si avvicina l’estate e con essa concerti e festival di musica. Grandi, medi, piccoli: i festival sono sempre meno accessibili a tutte le tasche. Ma a dire il vero i grandi festival e i mega concerti sono arrivati nei pensieri del pubblico con le biglietterie già aperte a dicembre, magari con sette mesi di anticipo, perché un biglietto per un evento con due o tre band amate potrebbe essere il regalo di Natale perfetto, al più tardi a gennaio o febbraio, in vista della serrata organizzazione delle vacanze. Ma si anticipano le prevendite soprattutto per la consapevolezza che i fruitori dei festival dovranno scegliere uno o due eventi su cui investire e comunicare quanto prima il programma significa guadagnarsi una fetta di pubblico.
LOGICA DISFUNZIONALE
Ma oltre a questa, che già in partenza sembra una logica disfunzionale per cui bisogna accaparrarsi un biglietto sempre più in anticipo per lo spauracchio del sold out, vige l’esigenza da parte degli organizzatori di fare cassa per pagare gli anticipi dei gruppi che bisogna opzionare. Le agenzie di booking internazionali lavorano sull’estate del 2026 già da fine 2024, per un gruppo straniero di livello medio, diciamo con un cachet di 80 o 90mila euro, alla firma del contratto bisognerà anticiparne 30 o 40mila. Senza parlare di cifre e modalità con nomi giganteschi, con cui si muove anche una macchina di palchi e scenografie colossali che richiede investimenti di ben altro tipo. È probabile che il nostro acquisto di oggi sia l’anticipo del concerto del prossimo anno.
Come certificato da AssoConcerti fra il 2022 e il 2023 c’è stata una rinascita della musica dal vivo, superando i dati di prima della pandemia, a trainare la musica pop e rock, per un totale di 36.018 concerti di cui più della metà svolti in estate e concentrati nel nord Italia, anche per una ragione infrastrutturale. Rispetto al 2019 il numero degli spettacoli è raddoppiato e il numero degli organizzatori è cresciuto del 59%. Ma dietro questi numeri, vale la pena aprire una parentesi su una dinamica del settore che rimane abbastanza in ombra.
Spesso accade che soggetti che operano come agenzie di booking e organizzatori di eventi, capitalizzano sul sistema degli spettacoli dal vivo, sfruttando la posizione intermedia. Può succedere che, ad esempio, un’amministrazione comunale desiderosa di organizzare un concerto in piazza in vista della stagione estiva (o delle elezioni), non avendo troppe competenze, si affidi a un interlocutore che propone un pacchetto «chiavi in mano»: un artista del proprio roster, con l’agenzia che si presenta come organizzatrice, fingendo di assumersi parte del rischio (ad esempio, prendendo un cachet fisso e/o l’incasso dei biglietti, lasciando al Comune la gestione delle consumazioni o degli spazi).
In realtà, in questo schema, il vero rischio operativo e organizzativo ricade spesso sull’ente pubblico: sarà il Comune a doversi occupare del piano di sicurezza, della scheda tecnica, del vitto e alloggio, convinto invece di aver acquistato un servizio completo. Nel frattempo, l’intermediario ha già trattato in anticipo il cachet dell’artista (magari con un accordo multiplo su più date) e agisce come unico nodo centrale tra il denaro pubblico e lo spettacolo. A guadagnarci è l’agenzia, che spinge i propri artisti, spesso senza gare o reali alternative, al punto che anche l’artista può non sapere a che prezzo, potenzialmente sproporzionato, viene effettivamente venduto il proprio concerto.
Pagheremo allora due volte i profitti dell’agenzia, con il biglietto e attraverso le risorse pubbliche. Intanto, i ricavi del settore sono raddoppiati (+97%) con una crescita del 33% rispetto al 2022, anche grazie all’aumento del prezzo dei biglietti: oggi, ogni spettatore spende in media 38 euro.
Accanto a questa visione economica e organizzativa, esiste anche un’altra narrazione, forse più utopica. L’articolo del Dipartimento di psicologia dell’Università di Yale sui raduni di massa, Prosocial correlates of transformative experiences at secular multi-day mass gatherings pubblicato su Nature del 2022 esplora come le esperienze trasformative vissute durante raduni multi-giornalieri possano generare effetti prosociali duraturi, come l’espansione del cerchio morale e l’aumento della generosità.
Questi risultati sono applicabili ai grandi festival musicali, che condividono molte caratteristiche con i contesti analizzati nello studio. Festival come Boom Festival (Portogallo), Burning Man (Usa) o Fusion Festival (Germania) offrono ambienti temporanei e altamente immersivi, dove i partecipanti vivono esperienze sensoriali ed emotive intense, spesso al di fuori delle strutture sociali convenzionali.
Probabilmente un partecipante a un festival musicale di sette giorni vive momenti di connessione emotiva ascoltando musica insieme a sconosciuti, partecipa a workshop di crescita personale e condivide risorse con altri partecipanti. Secondo lo studio, durante il festival questa persona potrebbe iniziare a vedere negli altri non più degli estranei, ma esseri umani con cui condivide qualcosa di profondo, aumentando la propria empatia e disponibilità ad aiutare anche sconosciuti dopo il festival. Un potenziale impatto sociale positivo, come se fossero laboratori temporanei di trasformazione morale e connessione umana. Una prospettiva che apre la strada a nuove forme di progettazione di eventi, mirate non solo all’intrattenimento ma anche alla crescita individuale e collettiva.
E quindi oltre ai concerti, corsi di yoga, meditazione, sport. Ma ogni festival è un mondo a sé, e chi scrive si ritrova nell’analisi del giornalista spagnolo Nando Cruz nel suo Macro Festivales. El agujero negro de la musica (Peninsula, 2023, ancora non tradotto in Italia), in cui ha studiato la deriva iberica, una nave scuola con un migliaio di festival, anche da 20, 30, 300mila spettatori e sempre meno concerti live di band internazionali durante il resto dell’anno giacché i promotor protendono verso i ricchi cachet degli eventi. Con i festival che devono spostare l’asticella ogni anno, quindi investire in infrastrutture più costose, più sponsor per contrattare più gruppi, quindi più palchi, più sicurezza e abbonamenti più cari. E se il pubblico risponde c’è bisogno di più ettari per l’edizione successiva, e quindi più infrastrutture, più sponsor, più sicurezza e così via, nella spirale dell’infinita crescita.
NON FERMARSI
Non fermarsi, trovare un limite agli ingressi, dichiarare meno pubblico dell’edizione precedente, può essere il segnale di una flessione delle aspettative e tradursi in meno sponsor, meno sovvenzioni pubbliche, meno attenzione da parte della stampa. Il pubblico è quello che più paga certe dinamiche, sia con il prezzo del biglietto o di acqua, birra e cibo, sia a livello di soddisfazione, quando i festival, per stress, file e chilometri giornalieri macinati, già non sono più a portata di essere umano.
Alla fine di queste estenuanti maratone, con concerti a ogni ora su decine di palchi, non è raro dire: «mai più». Un dettaglio sempre più frequente che riguarda specialmente stadi o location particolari è la dicitura «biglietto con vista limitata» al momento dell’acquisto. Una realtà ben diversa dall’immagine idilliaca costruita dalle campagne promozionali: video pieni di sorrisi, entusiasmo, zero disagi. E poi i nomi degli artisti snocciolati poco a poco, l’entrata con l’offerta lancio, la quantità infinita di proposte – che Nando Cruz definisce la teoria del «buffet libero» (dove l’utente può assaggiare tutti i piatti che desidera), tutto contribuisce a fomentare l’ansia dell’acquisto di un prodotto di cui, chissà, già si ha avuto un’esperienza negativa. Semplicemente nel nostro cervello di acquirenti reagisce l’emisfero irrazionale, arriva la paura di perderci qualcosa, fenomeno diagnosticato come fomo (fear of missing out).
Secondo il progetto L’Italia dei festival (IsICult) ci sono nel nostro Paese oltre 3mila festival totali, nel 2023 il ministero della cultura ha sostenuto 578 festival (188 cinema-audiovisivi e 390 spettacoli dal vivo). Un festival musicale è un evento di una o più giornate consecutive dove la musica dal vivo suona ininterrottamente per ore ma che può, come spesso accade, essere multidisciplinare, visto che, come detto sopra, nel proprio contenitore possono esserci altri tipi di interventi o interazioni con diverse discipline artistiche.
A dire il vero, il «festival» può diventare una serie di concerti nello stesso spazio, in diversi fine settimana, ma della stessa organizzazione, che quindi si avvale dello stesso cappello comunicativo. Più festival vuol dire, però, anche meno club di musica live che, massacrati dal Covid e dall’inflazione, arrancano e inseguono un pubblico a sua volta costretto a compilare una tabella di marcia che sia coerente con il proprio portafogli.
Con questi prezzi, a quali concerti, festival, posso permettermi di partecipare? Di fronte a uno o due festival che in pochi giorni portano cinque o dieci nomi internazionali, si rinuncia al club. Ma è nel club che nascono le alternative e si forgiano i futuri talenti; senza un circuito di club nessun futuro talento. D’altronde i club fanno molta più fatica a ricevere denaro pubblico. Sempre lo stesso portale del progetto ricorda che: «Le ricadute dei festival artistico-culturali riguardano in gran parte la ’filiera turistica’, quale importante occasione di promozione territoriale, con effetti comunicazionali anche sulle comunità locali».
Ospitare un grande evento nel proprio territorio significa certamente visibilità, specialmente perché un grande festival di musica, proprio per i nomi che salgono sul palco che mai si esibirebbero fuori dalle rotte delle grandi città e per i professionisti che coinvolge nell’organizzazione, è capace di richiamare più visitatori, si fa notare maggiormente di un’amministrazione di un territorio con qualche migliaia di abitante, magari con delle bellezze naturalistiche strepitose, ma con molta meno efficacia attrattiva/comunicativa. La Regione Puglia lo ha intuito presto: negli anni ha favorito la nascita di una vera e propria scena di festival. Eventi molto diversi tra loro, ma che a loro modo si sviluppano in sintonia con l’ambiente culturale e sociale della regione. Per sostenere questa visione, ha investito ingenti fondi pubblici, scommettendo sulla ricaduta economica. Il rovescio della medaglia? Un vero e proprio «overbooking» di eventi.
Secondo il Rapporto Siae nel 2023, i concerti di musica pop, rock e leggera, hanno registrato 23,7 milioni di spettatori, fagocitando il tanto incensato «turismo musicale». Chi arriva in un festival non si limita a consumare all’interno dell’area evento: soggiorna nelle strutture ricettive, si muove nei bar e nelle farmacie, mangia nei ristoranti. Un impulso secondario o parallelo, ma concreto, che per qualche giorno si irradia nel tessuto dell’economia locale.
Questo, però, accade davvero solo quando il festival nasce in rapporto organico con il territorio. Qui le sfumature sono infinite, ma quando l’evento è «calato dall’alto», quando una società specie se esterna decide di organizzare un festival e si avvale di una filiera di venditori autorizzati (magari sponsor o rami della stessa società) che arrivano da tutta Italia per vendere panini, bibite e quant’altro, il beneficio locale si riduce drasticamente, lasciando poco o niente alla comunità, la quale però spesso è chiamata a gestire i disagi.
PREZIOSE ENERGIE
Al diavolo quindi la cosiddetta «cultura di prossimità», dove all’evento partecipano attivamente i cittadini. Selezionare, organizzare, dialogare anche con modeste attività commerciali del territorio richiede tempo e preziose energie, e quindi costi, che il più delle volte gli organizzatori si evitano. Seppure, durante la fase di richiesta di fondi, poi gli stessi organizzatori non manchino di evidenziare la retorica dell’indotto economico. Ricordate ad esempio la tournée nelle spiagge italiane? Altra parentesi necessaria: i grandi festival nascono solitamente della durata di pochi giorni ma, se si sono ottenuti i risultati desiderati, nelle edizioni successive tendono a prolungare l’evento. La questione è legata alle infrastrutture: una volta montati palchi, stand, bagni e quant’altro, il costo di mantenimento si riduce, e si può incassare sui maggiori consumi all’interno del festival.
Dal lato delle diseguaglianze, e senza entrare in merito a quelle dei lavoratori per cui servirebbero capitoli a parte, mentre i cachet dei grandi artisti aumentano ogni anno, così come i biglietti, quelli dei piccoli artisti si riducono al lumicino, questi ultimi costretti a pubblicare un disco ogni due anni per garantirsi una tournée, attualmente unico margine di guadagno giacché dalla vendita dei dischi si ottiene poco niente.
LA FORBICE
Una forbice fra grande e piccolo che si allarga sempre di più, considerando pure la moria di club. Gli intermediari alzano i cachet dei grandi nomi consapevoli che i loro artisti garantiscono tot biglietti venduti e quindi l’esistenza stessa del festival, il quale, a volte, chiede l’esclusività degli artisti in tutto il territorio, adducendo quindi un rialzo di cachet. Dall’altro lato, la promessa di visibilità – il sold-out condiviso con nomi internazionali – può ridurre quasi a zero il cachet di un artista medio o piccolo locale, trattato alla stregua di una merce qualsiasi, il cui unico «beneficio» è un reel su Instagram da un prestigioso palco… alle quattro di pomeriggio.
Forse è il momento di farsi più domande e aderire meno, in modo passivo, alle narrazioni che ci promettono «il concerto della vita». A volte basterebbe ascoltare di più il nostro corpo, dopo le massacranti sfacchinate all’interno dei festival specialmente stranieri – giacché l’Italia (per ora) non è terra di megafestival, sebbene nel 2023 si parlasse dello sbarco del Primavera Sound a Torino. Nel nostro Paese mancano strutture adeguate, soldi, spazi, ma, forse anche per questo, i festival – spesso organizzati da piccole e medie realtà – difficilmente inseguono modelli di crescita infinita. Operano invece, per forza di cose, secondo criteri più sostenibili, sia dal punto di vista ambientale che economico.
In Spagna dove almeno dieci festival superano i 200mila spettatori e negli anni hanno beneficiato di ben altre sovvenzioni pubbliche, sono parte in causa degli effetti collaterali della turistificazione di alcune località ma, residenti e spettatori, iniziano a fare i conti con la stanchezza di averne uno sotto casa. Bisogna essere in allerta, superare l’attrazione fatale e l’ossessione verso le promesse esperienziali calibrate sui nostri istinti di compratori, dobbiamo smettere di aderire ciecamente all’idea che i grandi festival o i megaconcerti (ma anche i grandi eventi) siano spazi di rinascita e di cultura, o semplicemente l’antitesi della frenesia urbana. Perché, restando con Nando Cruz, sono per lo più luoghi organizzatissimi, inondati da stimoli consumistici, dove si esercita l’iperconsumismo, condensando appunto il consumo (e quindi il commercio) della musica in pochi giorni.
Il luogo per eccellenza del capitalismo estrattivo applicato alla musica e al territorio. Un festival deve invece essere rispettoso del territorio, non spremerlo, deve generare legami duraturi, non solo affluenza; offrire opportunità e diritti equi a chi lavora, non precarietà o visibilità usa e getta. Dovrebbe essere uno spazio aperto, accessibile, pensato per includere e non per escludere attraverso prezzi, target o dinamiche sociali. Non servono folle oceaniche per creare qualcosa che resti, servono scelte giuste, fatte magari in silenzio, con pazienza. Festival così esistono: sono rari, spesso invisibili nei circuiti più commerciali, ma sono quelli che lasciano qualcosa che va oltre il ricordo di un palco o di una lineup. Sono quelli che provano, concretamente, a costruire un altro modo di vivere la musica e la comunità, anche quando la musica si spegne.