il manifesto, 15 giugno 2025
Sport, quella mania da borghesi
Lo sport è oggi una passione condivisa da milioni di persone. Stando al «Rapporto Sport 2024», realizzato dall’Istituto per il credito sportivo e culturale e da Sport e Salute, nel 2023 poco più di 16 milioni di italiani, il 28 per cento, hanno praticato lo sport in maniera continuativa nel proprio tempo libero, mentre 4,9 milioni lo ha fatto in maniera saltuaria.
Eppure, nel nostro Paese lo sport ha vissuto momenti difficili. Dal suo apparire, verso la fine dell’Ottocento, fu osteggiato attivamente come racconta Stefano Pivato – professore di Storia contemporanea nelle Università di Trieste e Urbino, fra i primi a introdurre in Italia la storia dello sport – nel libro Contro lo sport Da Pio X a Umberto Eco (Ed. Utet, € 14,00).
Pivato, quando inizia in Italia a prendere piede lo sport?
In Italia lo sport si diffonde a partire dalla fine dell’Ottocento. Sono aristocratici e alto borghesi inglesi che in trasferta vacanziera in Italia importano pratiche esclusive come il tennis o il golf. E sono marittimi inglesi che fondano il primo club calcistico italiano, il «Genoa Cricket and Football Club». All’inizio si tratta di mode esclusive.
Al periodo del fascismo data la democratizzazione dello sport. Fenomeni come il ciclismo, il calcio e la nascita del tifo testimoniano che lo sport diventa popolare anche in Italia a partire dagli anni Trenta. Johan Huizinga, lo storico olandese che nel 1937 pubblica Homo ludens, sostiene che all’interno di questa metamorfosi il gioco perde progressivamente la sua cifra ludica. In questa trasformazione la figura dello sportivo emargina l’idea di spontaneità e di passatempo che il gioco aveva rivestito nel corso dei secoli.
La Chiesa, subito, non lo vedeva di buon occhio. Perché?
La Chiesa d’inizio Novecento avversa lo sport perché lo ritiene un prodotto della modernità. E, in quanto tale, lo condanna. Nelle file dei tradizionalisti c’è il timore che lo sport possa veicolare valori «protestantici», come quello della libera iniziativa, che sono propri dell’Inghilterra vittoriana dalla quale proviene il modello sportivo. Ma il motivo principale risiede nel rifiuto della cultura del corpo: non a caso alcuni sacerdoti proclamano che lo sport «può fomentare l’orribile delitto della pederastia». Vescovi e sacerdoti condannano inoltre lo sport perché ritengono che la sua pratica sottoponga il corpo del giovane a esercizi «acrobatici e scomposti». E la polemica assume toni ancora più aspri nei confronti dello sport femminile: una eccessiva esibizione del corpo è ritenuta non appropriata alla missione di moglie e madre cui la donna è destinata. Nel corso degli anni Trenta, allorché il regime fascista promuove lo sport femminile all’interno della campagna eugenetica volta a migliorare la razza italiana la chiesa si oppone fermamente.
Poi però dà spazio agli oratori, dove lo sport era una parte importante…
Perché la Chiesa si rende conto, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta che lo sport, divenuto un fenomeno di massa, non può essere più ignorato. È Luigi Gedda, Presidente della Gioventù di Azione Cattolica che crea, attraverso Gino Bartali, il mito del «magnifico atleta cristiano» proponendo un modello dell’atleta cattolico alternativo a quello fascista. Lo sport cattolico prende le distanze dalla figura dell’atleta muscolare del regime ed elabora la teoria del «coraggio cristiano»: lo sport deve preparare i giovani alle sfide del Ventesimo secolo e contrastare l’idea che Friedrich Nietzche propone in L’anticristo sul giovane cattolico «fiacco e debole». Nel secondo dopoguerra sarà Pio XII, non a caso definito il «Papa degli sportivi», a rilanciare quel modello e a farne uno dei capisaldi della cultura dell’oratorio.
Il socialismo invece lo riteneva un «prodotto del capitalismo» …
La motivazione principale risiede nel fatto che la ginnastica prima e lo sport poi sono considerati dalle classi dirigenti liberali come strumenti educativi diretti a rafforzare lo spirito nazionalistico: il corpo doveva essere al servizio della patria. Ovvio che lo spirito internazionalista del socialismo non poteva che essere contrario. Era poi diffusa la convinzione che lo sport potesse distogliere i giovani dalla rivoluzione. Per questo, a partire dalla fine dell’Ottocento, i socialisti lanciano i loro strali contro la «mania borghese dello sport».
E non ebbe «vita» facile nemmeno nel Sessantotto…
Il movimento del Sessantotto eredita quelle riserve. Tanto più che filosofi come Adorno, Horkheimer e Marcuse denunciano la mercificazione dello sport e lo accusano di farsi portavoce di una cultura aggressiva e narcisistica. Grande impressione suscitò poi la repressione contro le manifestazioni studentesche in occasione delle Olimpiadi di Città de Messico del 1968 – quelle del pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos – che provocarono centinaia di morti. Sono proprio le analisi dei seguaci della Scuola di Francoforte a suscitare sentimenti di diffidenza e ostilità nei confronti dello sport da parte dei giovani del Sessantotto. Libri come quelli di Gerhard Vinnai, Il calcio come ideologia, o di Ulrike Prokop, Le olimpiadi dello spreco e dell’inganno, orientarono il movimento studentesco aggiornando l’interpretazione dello sport come «oppio dei popoli».
Nel sottotitolo del libro cita Umberto Eco. Cosa c’entra?
Umberto Eco ha sostenuto a più riprese che lo sport era uno instrumentum regni diretto a controllare gli istinti delle folle e ad agire come copertura dei problemi sociali. Nella sua severa analisi sembra riprendere quelle di Huizinga, storico olandese, sulle differenze fra gioco e sport biasimando quest’ultimo che è debordato in una forma spettacolo che suscita esagerazioni e fanatismi. Umberto Eco in più di una occasione dichiarò di non essere contrario allo sport ma alle schiere dei tifosi fanatici che alimentano la degenerazione della «chiacchiera sportiva» supportata dalla proliferazione della stampa di settore. Su questo punto Eco non sbagliava considerando che l’Italia è l’unico paese al mondo nel quale si pubblicano tre quotidiani sportivi e che al lunedì la Gazzetta dello Sport è il quotidiano più venduto in edicola.
In che periodo lo sport ha invece cominciato a trovare un terreno fertile nella nostra società?
Lo sport perde le connotazioni aristocratiche d’inizio Novecento negli anni fra le due guerre mondiali. Il fascismo eleva l’attività sportiva a strumento educativo della nazione guerriera e assurge fra le massime potenze sportive mondiali attraverso una serie incredibile di successi. Alle olimpiadi di Los Angeles, nel 1932, con dodici medaglie d’oro, dodici d’argento e tredici di bronzo, gli «azzurri» si classificarono al secondo posto nella graduatoria per nazioni preceduti solo dagli Stati Uniti. La nazionale calcistica conquistò nel calcio due titoli mondiali consecutivi nel 1934 e nel 1938. Bottecchia, Binda, Guerra e Girardengo dominarono nel ciclismo, allora disciplina di gran lunga più popolare del calcio.
Una volta sdoganato lo sport rimaneva, e rimane, il tema della parità di genere…
Lo sport femminile ha tardato ad affermarsi in Italia per la forte impronta tradizionalista impressa dalla chiesa cattolica sul corpo femminile, di cui abbiamo parlato prima. Le spinte emancipazioniste degli anni Settanta e Ottanta hanno contribuito a diffondere una nuova cultura del corpo e fra la fine del millennio scorso e l’inizio del Terzo è giunto a maturazione un percorso nel corso del quale si sono accorciate le distanze fra lo sport maschile e quello femminile.
Sono state alcune atlete a ispirare una svolta significativa. Si pensi nel nuoto a Federica Pellegrini, nel tennis a Francesca Schiavone o nella scherma a Valentina Vezzali, considerata la più grande schermitrice di tutti i tempi. L’Italia non è mai stata vincente nello sport femminile come nell’ultimo ventennio. Certo, differenze di genere permangono ancora forti, soprattutto nella attività di base, ma credo si possa dire che la forbice si è ristretta.