il manifesto, 15 giugno 2025
Dalai Lama, l’erede Made in China
Nel cuore delle montagne dell’Himalaya, dove il vento porta con sé le preghiere scritte sui drappi colorati e i monasteri si specchiano nel cielo più alto del mondo, si gioca una partita spirituale che potrebbe avere ripercussioni geopolitiche di portata mondiale. È una storia di fede, potere e identità: la vicenda della successione del Dalai Lama.
NEL 1995, un bambino di sei anni, Gedhun Choekyi Nyima, fu identificato dal Dalai Lama come la reincarnazione del Panchen Lama, la seconda figura più importante del buddhismo tibetano. Tre giorni dopo scomparve. La Cina lo fece sparire nel nulla, dichiarando anni dopo che godeva di una vita normale, lontano dai riflettori. Ma nessuno lo ha più visto. Al suo posto Pechino installò un altro bambino, Gyaltsen Norbu, come undicesimo Panchen Lama. Ma per molti tibetani è un impostore, un simbolo vivente del tentativo cinese di colonizzare anche lo spirito di un popolo. Oggi, Gyaltsen Norbu ha raggiunto la maturità ed è diventato un perfetto funzionario-religioso: elogia le politiche del Partito comunista e promette di rendere il buddhismo «più cinese».
NEI GIORNI SCORSI è stato protagonista di una rara visita a Zhongnanhai, varcando la soglia del cuore del potere politico di Pechino. Qui, ha incontrato il presidente Xi Jinping, di cui ha garantito di «tenere ben presenti gli insegnamenti». Il Panchen Lama ha promesso di dare il proprio contributo al rafforzamento di «un forte senso di comunità per la nazione cinese» e al progresso sistematico della «sinizzazione della religione». Il messaggio inviato da Pechino è chiaro: la Cina controllerà il futuro spirituale del Tibet. Ma se il Panchen Lama è il preludio, la sinfonia è ancora tutta da scrivere. Il Dalai Lama, Tenzin Gyatso, ha 89 anni.
E ha annunciato che renderà noto il futuro della sua reincarnazione intorno al suo novantesimo compleanno, in calendario il prossimo luglio. Ci siamo, insomma. Ecco perché il tempismo dell’incontro tra Xi e il Panchen Lama non è certo casuale. Pechino si prepara a una nuova battaglia sul Tibet. D’altronde, Tenzin Gyatso lo ha già scritto nel suo ultimo libro, Voice for the voiceless: «Il nuovo Dalai Lama nascerà nel mondo libero». Traduzione: fuori dalla Cina. Non c’erano grandi dubbi, viste le irrisolte divergenze tra il governo tibetano in esilio e la Cina.
Non è solo una contesa religiosa ma anche politica sul «Tibet meridionale»
SI TRATTA DI UNA VICENDA che affonda le radici nel secondo dopoguerra. Subito dopo la fine della guerra civile tra comunisti e nazionalisti, nel 1950, Mao Zedong invade il Tibet autonomo. Il Dalai Lama, allora giovanissimo e in carica già da una decina d’anni, fugge in India dopo la sanguinosa repressione delle rivolte del 1959. Da allora, è sempre rimasto a Dharamsala, non lontano dalla frontiera contesa tra Cina e India. Da qui ha guidato a lungo il governo tibetano in esilio, diventando il simbolo mondiale del Tibet e incontrando a varie riprese tutti i più importanti leader internazionali. Per questo la Cina, che si oppone all’internazionalizzazione della questione tibetana, definisce il Dalai Lama un «separatista» e un «lupo travestito da monaco».
I RAPPORTI sono ulteriormente peggiorati dopo la grande rivolta tibetana del 2008, avvenuta nei mesi precedenti ai Giochi olimpionici di Pechino attraendo l’interesse temporaneo di una lunga schiera di divi di Hollywood e politici occidentali. Anche Giorgia Meloni, ancora lontana dall’entrare a Palazzo Chigi, scese in piazza chiedendo di disertare la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi. Dal 2010 ogni forma di dialogo è venuta meno e, l’anno successivo, la decisione di separare il potere spirituale da quello politico con la creazione di un nuovo governo civile in esilio ha aumentato l’irritazione cinese. Negli ultimi anni la questione è tornata al centro dell’attenzione. Nel 2020 il leader tibetano è stato invitato per la prima volta a Washington dall’amministrazione Trump, un segnale di riconoscimento politico oltre che spirituale che ha scatenato l’ira di Pechino, facendo presagire nuove complicazioni nel dossier tibetano. A giugno 2024 si è registrato un ulteriore salto di livello con la visita a Dharamsala di una delegazione di alto profilo del Congresso degli Stati uniti, guidata dall’allora presidente della commissione Esteri, Michael McCaul, e dall’ex presidente della Camera, Nancy Pelosi.
Dharamshala (India), la protesta contro Pechino. In alto, l’attuale Dalai Lama
Dharamshala (India), la protesta contro Pechino (Ap)
SIA IL GOVERNO TIBETANO in esilio sia Pechino rivendicano il diritto di scelta del nuovo Dalai Lama. La nomina del successore di Tenzin Gyatso sarà la prima da quando esiste la Repubblica Popolare cinese, che sostiene di avere ereditato il diritto di scelta (o, quantomeno, di conferma) che aveva in passato la dinastia imperiale Qing. Esiste dunque la concreta possibilità che in un futuro non troppo lontano ci siano due Dalai Lama: uno nominato e riconosciuto dalla Cina, l’altro nominato dal governo tibetano in esilio e riconosciuto da India, Stati uniti e Occidente. Nei giorni scorsi c’è stato un anticipo, con il governo cinese che ha protestato contro il Giappone per aver ospitato una convention sul futuro del Tibet.
OLTRE ALLA SCONTATA LOTTA internazionale, Pechino teme che tutto questo possa portare a nuove turbolenze interne tra i fedeli tibetani. Anche per questo accelera da anni la sinizzazione della regione che chiama Xizang, spesso tradotto in «tesoro dell’ovest». Per farlo ha seguito una strategia duplice: imponenti investimenti economici e infrastrutturali da una parte, assimilazione culturale dall’altra. Non è solo una questione religiosa. Quello che separa lo Xizang dal «Tibet meridionale» (come Pechino chiama i territori che rivendica ma sotto controllo dell’India) è un confine vivo e conteso. Ed è un serbatoio d’acqua, un tesoro idrico che potrebbe diventare fonte di nuove tensioni. Basti pensare alla mega diga di Motuo che la Cina vuole costruire sul fiume Yarlung Tsangpo e che potrebbe dare a Pechino il controllo su un’arteria vitale che scende fino al Brahmaputra in India. Sotto il cielo più alto del mondo non è escluso possa presto aumentare la confusione.