Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 15 Domenica calendario

Intervista a Umberto Orsini

Umberto Orsini a 91 anni resta l’attore più bello e di maggior talento del teatro italiano. Ha lavorato con Visconti, Fellini, Zeffirelli, Ronconi. Ha avuto alcune tra le donne più contese del Novecento. Ora sta provando il nuovo spettacolo, «Prima del temporale», esordio al Festival di Spoleto il 27 giugno. Uno spettacolo in cui parla di sé, tratto dalla sua autobiografia, «Sold out».
Orsini, qual è il suo primo ricordo?
«La grande cucina della mensa ufficiali di Novara, dove sono nato. Mio padre, Ettore, era il gestore. Mia madre, Antonietta, la cuoca, aiutata da mio fratello e mia sorella. La famiglia aveva avuto un certo splendore: decadde quando nacqui io. Ci impoverimmo».

Com’erano gli ufficiali?
«Uno dei miei primi ricordi è quando si lamentarono che le banane erano troppo piccole. Mio padre le raddrizzò con le mani, le rimandò indietro dritte e lunghe e a mio fratello disse: di’ che queste sono le banane per i signori ufficiali».
Cosa ricorda del fascismo?
«Il Duce. Arrivò nella piazza principale di Novara, scese dall’auto, si incamminò, strinse mani, poi mi prese tra le braccia e mi sollevò. Ma forse è un ricordo che ho ricostruito nella mia mente, sulla base di quel che mi hanno raccontato. Di certo ero Figlio della Lupa. Portavo le fasce bianche incrociate sul petto, a mo’ di cinturone, chiuse con una M, la M di Mussolini, che lasciava sulla stoffa un alone di ruggine. Quindi il primo ricordo del fascismo è olfattivo».
E la guerra?
«Davanti a casa passò una camionetta di fascisti che cantavano. Erano alterati, uno di loro vide mia sorella e dal niente si mise a pisciare, tra le risate degli altri soldati. Fu qualcosa di osceno, che mi ispirò una sequenza del film Il delitto Matteotti. Abitavamo in periferia, in campagna. Vedevo in lontananza i bombardamenti a Milano come fuochi d’artificio nel cielo, mentre noi ci gettavamo nei fossati. Erano spaventose le fortezze volanti degli Alleati, grandi aerei minacciosi. E poi ricordo che rivendevo di contrabbando le sigarette che ottenevo dai soldati inglesi. Facevo borsa nera. Con i soldi acquistai un portafogli che mi scivolò dalla tasca. Non ne ho più comprato né posseduto un altro in tutta la mia vita».
Suo padre com’era?
«Era nato nel 1897. Mutilato della Grande Guerra. Aveva perso un occhio, l’aveva di vetro, ogni sera lo metteva nel bicchiere sul comodino. Così l’occhio finto restava inalterato, mentre l’altro, quello vero, si scoloriva. Insomma mio padre aveva occhi di colore diverso. Racconto anche questo nello spettacolo. Io ero un po’ restio, la chiave l’ha trovata Massimo Popolizio che ne fa la regia, mi mette a fuoco».
In che modo?
«Svela qualcosa di me che ho sempre negato al pubblico, avrò questa mancanza di pudore nel mostrarmi come sono davvero. Non è un tributo né una celebrazione, ma l’attraversamento di un’epoca. Settant’anni di lavoro. Potrei farne dieci spettacoli. Racconto anche fatti apparentemente marginali: i fumetti, i fotoromanzi».
Ne fece molti?
«Le copertine di Bolero, Sogno, Grand Hotel erano la maniera più ovvia per monetizzare la prima popolarità. Pagavano moltissimo».
Quanto?
«Con due fotoromanzi all’anno, per due anni, ti compravi un paio di appartamenti. Erano riviste vendutissime, che raggiungevano un pubblico più ampio di quello del teatro».
Negli Anni 80 lei recitò Emmanuelle con Sylvia Kristel.
«Dopo Visconti, Ronconi, Missiroli, il mio telefono taceva. Niente viene riconosciuto in questo Paese. Ero più popolare in Francia, così accettai Emmanuelle. Fu un grande successo. Le Figaro mi lapidò: “Un grande attore che si piega a fare questo genere di film”. È un porno leggero, patinato».
Sylvia Kristel era stupenda.
«Giravamo a Bali, mi chiese di provare la scena nella mia roulotte. Una scena di mugolii e di piacere. Lei si spogliò, io mi spogliai. Mi disse: “Quando sono sopra di te devi mettere le mani sul mio sedere, perché ho un po’ di cellulite”. “Ma se sei la donna più bella del mondo”, risposi».

Ci fu qualcosa tra voi?
«Credo di sì. Era un sex symbol ed era profondamente fragile e complessa. Poi la persi di vista. Seppi che era gravemente malata in Olanda, dov’era nata, e che era ridotta in miseria. Andai a trovarla in ospedale, ci mise parecchio a riconoscermi. Mi parlava in olandese, non si ricordava nulla di Emmanuelle».
Ha lavorato anche con Angie Dickinson.
«Fu la mia unica esperienza a Hollywood. Nel film sono un piccolo gangster italoamericano che ha per amante Angie Dickinson. Era considerata la donna con le gambe più belle del mondo. Posso testimoniare che non era vero. Di gambe ero un esperto: allora stavo con una delle gemelle Kessler, Ellen, che avevo conosciuto alla mensa Rai di via Teulada. Eravamo mascherati tutti e tre, come avviene alle prove. Loro due con un vestito a piume di struzzo, io da rivoluzionario francese. Il nostro primo incontro sembrava carnevale».
Diceva di Angie Dickinson.
«Ero uno dei pochi che poteva vedere i giornalieri, il girato del giorno. Giravamo in piscina e vidi delle cosce tremolanti che ballavano un po’, sotto le calze trasparenti color carne. Mi facevano perdere la concentrazione. Crollò letteralmente un mio mito».
Qual è stato l’amore più grande della sua vita?
«Rossella Falk. Fascino ed eleganza, la primattrice della Compagnia dei Giovani, una delle compagini più prestigiose dagli Anni 60 in avanti, che favorì il mio debutto. C’era un problema. Rossella era sposata con il manager di una grande azienda del Nord, e l’amante lo aveva già: Renato Salvatori, il divo dell’epoca. Un giorno gli telefono e gli chiedo di dire a Rossella che doveva prendere una decisione tra me e lui, perché stavamo soffrendo entrambi. Renato accetta».

E poi?
«La sera dopo Rossella e io andammo a casa mia, a Viale Tiziano, dove all’epoca c’erano le prostitute. Per non dare nell’occhio ognuno salì sulla sua auto: io la mia 600, lei la sua Chevrolet azzurra. Ma prima passai dal ristorante Mario er Pallaro per prendere qualcosa da mangiare a casa».
Cosa?
«Due braciole di maiale. La precedetti, all’improvviso sentii delle urla. Vidi Rossella distesa sull’asfalto, sanguinava dal volto. Renato le aveva dato un cazzotto. Le aveva rotto il naso, che infatti lei cambiò con un’operazione. Un vicino chiamò la polizia pensando a una lite tra prostitute. Gli agenti seguirono le tracce di sangue che portavano al mio pianerottolo. Bussarono. Chiesero le nostre generalità: Rossella Falk si chiamava in realtà Rosi Falzacappa. Nonostante il mio consiglio, le sfuggì il nome di Renato Salvatori. Ero preoccupato, le misi la braciola sulle ferite per tamponarle il sangue. Intanto avevo ingegnato un finto incidente, perché giustificasse al marito l’occhio nero e il naso dissestato».
Qual era il piano?
«Mi misi al volante della sua auto e andai a sbattere di proposito all’Aventino, dove lei abitava, vicino alla casa di Gassman. L’incidente fallì miseramente e io finii smascherato. Il giorno dopo l’Ansa batté la notizia: “La signora Rossella Falk ieri è stata brutalmente assalita dal signor Renato Salvatori”. Da quel momento nacque la mia fama di giovane seduttore di attrici famose.
A teatro la gente si dava di gomito: è lui, è quello della scazzottata...».
Quante donne ha avuto?
«Non così tante. Ho avuto grandi amori, e lunghi».
Le manca non avere avuto figli?
«No. C’è una battuta nello spettacolo: una ragazza mi portò la lettera di un’ammiratrice, che era sua madre e alludeva a qualcosa, forse un figlio che non sapevo di avere. Per fortuna non era così».


Quando fece l’amore la prima volta?
«Avevo sedici anni, con un’amica più grande di me, molto danarosa. Grazie a lei potei andare a Roma, a studiare all’accademia d’arte drammatica».

Lei ha fatto anche i musicarelli.
«Con Mina mi ritrovai in Io bacio... tu baci».
Ne era infatuato?
«Tutti lo erano. Però il suo cuore era occupato da Corrado Pani, che era un mio amico fraterno. Io lì dovevo cantare, ma non ho un grande orecchio musicale. Siccome interpretavo un pianista, le mani me le prestò Toni Renis, mentre Gianni Meccia batteva il tempo. Era un collage. C’erano tutti: Jimmy Fontana, Peppino Di Capri, Adriano Celentano».
Con Celentano giocava a poker.
«Sì, con lui, Vittorio Caprioli, Antonello Falqui il regista dei varietà, e Sophia Loren. Ci riunivamo il giovedì, e poiché Celentano non voleva che girassero grandi cifre, alla fine si tirava a sorte: c’era il bigliettino del cento per cento, e quello dell’uno per cento. Una volta ci fu un rilancio terrificante tra me e lui: vinsi 110 milioni di lire. Ovviamente uscì il bigliettino dell’uno per cento».

Celentano lo ritrovò con un grande pugile.
«Joe Frazier, il campione dei pesi massimi. Venne in Italia per esibirsi come cantante alla Capannina di Forte dei Marmi. La serata era in tv sulla Rai, doveva essere condotta da Walter Chiari ma per le sue vicende di droga si rivolsero a me. Non ci fu tempo per le prove. Tutto in diretta».
Come andò?
«Adriano faceva domande in italiano che io traducevo, ma non era facile rendere in inglese il suo pensiero. Frazier voleva che lo presentassi con una certa enfasi, all’americana. A un certo punto pensò che lo stessimo prendendo in giro e ci mostrò il pugno con fare minaccioso. Temetti il peggio. Per fortuna Adriano, che ho sempre adorato, buffamente gli mostrò il suo pugno come s’era visto tra Frazier e Muhammad Alì in tv. Frazier capì il gioco. Finimmo a ridere. Un colpo di fortuna».
Qual è stata invece la sua delusione più grande?
«Di recente ho presentato il mio libro a Castiglioncello. Mi fecero un regalo, un piano di produzione del Sorpasso, il film di Risi che si girò lì nei pressi. Accanto al personaggio di Vittorio Gassman c’era il mio nome con una linea sopra. Al mio posto fu preso Trintignant. All’evidenza, per ragioni che non ho mai conosciuto, il suo ruolo dovevo farlo io».
Chi era il produttore?
«Mario Cecchi Gori, il padre di Vittorio. Però mi prese per il film “Caccia all’uomo”, dove accanto a me c’era il cane Dox, che risolveva le indagini di un giovane poliziotto. Il problema è che il cane non mi guardava mai. Un giorno, a fine riprese, lo grattai nelle parti intime. Finalmente mi guardò con gli occhi che speravo di ritrovare in lui. Rigirammo tutte le scene con la mia mano sotto che lo grattavo. Fu la più grande interpretazione di un cane».
Si considera un sopravvissuto?
«Lo sono, e sono il testimone di un’epoca. Se le persone scomparse che ho conosciuto e amato si radunassero per miracolo oggi, sarebbero più giovani di me. Tutti morti troppo presto: Luchino Visconti a 70 anni, Romolo Valli a 55, Luca Ronconi a 82 anni, Corrado Pani due giorni prima di compierne 69. Sì, sono un sopravvissuto».
Visconti era innamorato di lei?
«No, mi voleva bene, mi coccolava, gli piaceva passare del tempo con me, anche come interprete. Fu lui a farmi diventare primattore. A parte Ludwig e La Caduta degli dei ho recitato nella sua ultima commedia, Vecchi tempi di Pinter. Era un bel periodo».
Fellini la prese per La dolce vita.
«Per un ruolo molto piccolo, diedi il primo colpo alla zip di Nadia nella scena dello spogliarello».

Ha mai avuto rapporti omosessuali?
«Quando da ragazzo in parrocchia giocavo a calcio, un ragazzo mi baciò. Se mi piacque? Mi sembrò una cosa naturale, mi sembrava un gesto d’amicizia. Ci fu un secondo episodio subito dopo la guerra con un inglese, che rifiutai per il disgusto e la violenza».

La memoria in scena è diversa dalla memoria della vita?
«Io sono ossessionato dalla memoria. Ho il metodo di memorizzare tre righe al giorno che dopo un giorno diventano sei e poi nove. Le trascrivo su carta senza pronunciarle ad alta voce».
La memoria l’ha mai tradita in scena?
«Una sola volta, nel Volpone di Ben Jonson. Recitavo con Tino Carraro. Gli attori di una volta erano pigri, a una certa età si aiutavano con l’auricolare. Io gli dicevo: Tino sei più bravo senza, cerca di fare uno sforzo. Un giorno mancò a me una parola, non mi veniva proprio».
Quale parola era?
«Mantello. Mi aiutò Tino».
Quando ha debuttato?
«Nel 1957 all’Eliseo: Il diario di Anna Frank. Al teatro, all’Accademia, mi avvicinai dopo che mi ero iscritto a Legge a Milano. Dovevo trascrivere degli atti da un notaio. Gli atti si leggono ad alta voce e a poco a poco acquistai sicurezza, gigioneggiavo anche un po’, come se avessi davanti a me degli spettatori. Le segretarie mi dissero che come leggevo io gli atti non li aveva mai letti nessuno, che avevo una voce seducente e che avrei dovuto fare l’attore. Ma all’inizio andai avanti a colpi di fortuna, non so come riuscivo a darla a bere».
Qual è il segreto della longevità?
«Lo sport. E la lettura».
Quale sport?
«Il tennis. Ho giocato fino a due anni fa, ora ho paura di cadere. Il mio segreto è essere stato sempre in movimento, anche in senso intellettuale. Quando non c’era Internet andavo spesso a Londra per vedere testi che poi ho portato in Italia: Servo di scena, Le relazioni pericolose, Miele selvatico. Leggevo molti testi, me li facevo anche recapitare da un corriere che era un pilota dell’Alitalia. Ne leggevo uno dopo l’altro, in modo diverso da un romanzo, perché se ne leggi uno in un pomeriggio, senza interruzioni, immaginando un possibile spettacolo, capisci se tiene l’arco di un racconto. Così ho tenuto allenata la memoria».
Per un repertorio vastissimo.
«Ne avevamo tre a stagione contemporaneamente. C’era una novità di Peppino Patroni Griffi, D’amore si muore, con Valli e De Lullo. Decisero di prendere me al posto di Luca Ronconi, che all’epoca era attore. Il mio avvento ha provocato la nascita di un grande regista».
Ha toccato tutti i generi.
«Mi manca solo il circo. Ho fatto un programma in tv nel 1971 con Luigi Veronelli, Colazione allo Studio 7, antesignano di quelli odierni degli chef, dove gareggiavano due cuochi di regioni diverse. Ne avevo visto uno simile negli Stati Uniti. Al tempo in Rai a mezzogiorno non davano niente, passavano le pecorelle. Ho anche fatto la pubblicità del dentifricio Colgate. Decisi di smettere la sera in cui nel camerino del teatro una signora mi chiese l’autografo per lo spot e non per lo spettacolo».
Crede in Dio?
«No».
Quindi l’aldilà non esiste?
«Temo di no, e comunque non ci penso mai. E non prego. Certo, una piccolissima speranza dentro di me la sento...».
La morte le fa paura?
«No, ne parlo spesso. La morte non è importante per me ma per le persone a cui voglio bene. Sono stato ucciso molte volte a teatro. Infilzato da una spada, per mano di una rivoltella, con il veleno. Sono morto in auto in Morte di un commesso viaggiatore. Avrò sperimentato una ventina di morti. Nessuna somiglierà alla mia. Perché si rappresenterà da sola».