La Stampa, 15 giugno 2025
L’interventismo Usa spacca i Maga Trump tira dritto: sto con Netanyahu
La Casa Bianca resta ferma sulla sua posizione ed è un funzionario dell’Amministrazione a sottolineare che anche se i negoziati con la Repubblica islamica a Muscat, previsti per oggi, sono stati cancellati, l’America «rimane impegnata nel dialogo». Washington ritiene che la scossa che Israele ha dato martellando per due giorni obiettivi iraniani, debba sfociare in un accordo sul nucleare. Solo così, gli Usa avranno il “leverage”, la possibilità di fare leva su Israele e indurla a fermare l’offensiva e ottenere un accordo per impedire che Teheran abbia l’atomica.
Ieri Trump ha parlato con Vladimir Putin. Il colloquio con il presidente russo è durato cinquanta minuti, fanno sapere dal Cremlino. Oltre a portargli gli auguri per il 79° compleanno, Putin ha discusso di Medio Oriente e Ucraina. Trump, nel resoconto offerto da Mosca, ha sottolineato che i «negoziatori sono pronti a riprendere i lavori con gli iraniani» e ha nel contempo definito «molto preoccupante la situazione in Medio Oriente». Il capo del Cremlino ha condannato i raid israeliani e offerto una sponda per la ripresa dei colloqui sui nucleare.
Nel frattempo, però, le priorità Usa restano la difesa di Israele dalla rappresaglia iraniana e dei miliziani dell’asse della resistenza e la protezione dei 40 mila militari statunitensi in Medio Oriente. Sono le basi in Siria (nell’Est del Paese) e quelle in Iraq le più vulnerabili. Un attacco iraniano avrebbe conseguenze serie e potrebbe provocare un coinvolgimento diretto degli Usa nel conflitto.
Il pensiero è esposto con nettezza nel mondo politico americano e soprattutto nella galassia Maga. Che appare spaccata dinanzi al sostegno convinto di Trump a Netanyahu. Non è in discussione l’appoggio a Israele, bensì il coinvolgimento Usa. Lindsey Graham, senatore della South Carolina, falco sull’Iran, ha benedetto l’avvio delle operazioni con un post su X, «Game on», la partita è iniziata. Benché predominante, quella di Graham non è l’unica posizione dentro i repubblicani. Josh Hawley, ultraconservatore del Missouri, ha invece espresso la sua «contrarietà all’interventismo Usa all’estero». E da più parti si fa notare come le mosse di Trump non siano coerenti con quanto aveva detto appena un mese fa nel tour in Medio Oriente quando aveva criticato l’interventismo dei “neoconservatori” di Bush e la pretesa di cambiare dall’esterno le società «che nemmeno capiamo».
Il rifiuto dell’interventismo è ben saldo nell’animo dell’ala più dura e pura del mondo Maga. Steve Bannon, ideologo del 2016 e voce super ascoltata dalla base, nel suo programma radio e podcast War Room, ha scelto il silenzio. Marjorie Taylor Greene, pasionaria deputata della Georgia, ha fatto “coppia” con Tucker Carlson, l’ex mattatore tv della Fox, sostenendo che gli elettori di Trump «non l’hanno votato perché l’America venga coinvolta nei conflitti». «L’ultima cosa che l’America vuole è una nuova guerra», la tesi di Charlie Kirk, giovane influencer, animatore di Turning Point Usa forte di 5 milioni di follower. Ha chiesto loro se l’America dovrebbe essere coinvolta nelle crisi mediorientali incassando una raffica di no. Lo scollamento fra base e la linea adottata dall’Amministrazione ha spinto un consigliere ad affidare alla NBC una riflessione: «La questione è ora come vendiamo l’attacco israeliano a una base recalcitrante». Per Trump insomma si tratta di aggiustare la narrazione, consapevole che anche nel suo team ci sono sfumature. Mike Waltz, ex consigliere per la Sicurezza nazionale (Nsc) avrebbe perso il posto più che per il Signalgate (la chat con informazioni sensibili condivisa con funzionari Usa) per un costante dialogo con gli israeliani volto a coordinare le operazioni contro l’Iran. Marco Rubio, da senatore era un falco anti-Iran, ora si è allineato con Trump. Il cambio di registro trumpiano da “spazio ai negoziati” sino alla luce verde a Netanyahu è giunto in concomitanza con l’ingresso di Rubio alla guida dell’Nsc. JD Vance è sull’altro fronte. Teorico del disimpegno Usa, nei giorni scorsi è stato ospite del podcaster Theo Von dove ha difeso gli sforzi negoziali dell’inviato Steve Witkoff, rimasto schiacciato dall’accelerazione trumpiana. Che guarda caso convince gli ex amici diventati rivali. Come John Bolton. L’ex consigliere di Trump spinge per il regime change. Mike Pompeo, già segretario di Stato, parla di raid «giusti e necessari». Le divisioni ci sono, quanto contino è difficile dirlo. Forse Matt Gaetz, ex deputato della Florida, adorato dai Maga, coglie nel segno: «Alla base interessa la risposta ai disordini di Los Angeles, non certo l’Iran».