La Stampa, 14 giugno 2025
"Oggi la vera provocazione è tornare a prendersi sul serio Mi sento un teenager con l’acne"
Dentro due capannoni, a Reggio Emilia, il pubblico insegue una danza. Muoversi con lo spettacolo non sposta solo la prospettiva, cambia il sentimento. È «Santa», una produzione che mette in gioco più arti e interagisce con le opere di Maurizio Cattelan. Pure loro, in questo frullatore di gesti e parole allungano ombre nuove, scatenano domande impreviste.
I vagabondi che tornano per Santa hanno attraversato la sua carriera. C’erano già a Torino, alle prime collaborazioni con la Fondazione Sandretto. Chi sono dopo 30 anni?
«Sono cambiati loro o siamo cambiati noi? I vagabondi sono sempre lì, immobili, mentre attorno tutto scorre: il tempo, le mode, i governi. Li chiamiamo marginali, ma sono loro ad attraversare tutto, senza chiedere il permesso. Il mondo che li guarda ha lo sguardo più corto. Forse per stanchezza, forse per paura».
Nell’allestimento di Arteballetto le opere le restituiscono una percezione diversa?
«Per me l’opera è come un messaggio in bottiglia: la lanci in mare, poi non puoi decidere chi lo leggerà o come lo interpreterà. Se stavolta galleggia accanto a corpi in movimento, tanto meglio. È un gioco di riflessi: il gesto del performer rimette in discussione la fissità della scultura. E a me resta solo il ruolo di spettatore, come agli altri».
Che cosa è la provocazione nel 2025?
«Può essere un’arma spuntata o un pretesto nobile, dipende da chi la usa. Oggi la vera provocazione forse è stare zitti, non pubblicare, non spiegare. In un’epoca dove tutti parlano, sparire può essere il gesto più rumoroso».
Se ne è abusato, è scaduta, non ha retto la cultura woke?
«In un mondo dove tutti chiedono attenzione e devono produrre contenuto, il rumore si è alzato così tanto da livellare tutto. Non c’è distinzione tra buono e cattivo, vero e falso, profondo e superficiale. Forse oggi la vera provocazione è tornare a prendersi sul serio. Fare meno, ma farlo meglio».
Se non si sente più provocatore, come si definisce?
«Se proprio devo, forse un teenager con problemi di acne e, nei giorni migliori, un impiegato dell’arte. In tutto quello che faccio ci metto impegno, concentrazione, una serietà che magari non si nota. Tratto le opere come figli: cerco di dar loro il meglio, perché possano affrontare la vita nel modo migliore possibile».
La banana scotchata al muro non è una provocazione?
«Lo è, ma non nel modo in cui si pensa. “Comedian” non prende in giro l’arte, prende sul serio il sistema che la circonda. È un test: tutti ridevano, poi qualcuno l’ha comprata, e nessuno ha più saputo se ridere o no. Parla di desiderio, di mercato, di consenso. Di quanto siamo disposti a crederci, se ci credono gli altri».
Le giro una serie di frequenti etichette che nel tempo hanno tentato di descriverla. Mi dice, in percentuale, quanto si sente così? Il Buster Keaton dell’arte.
«40%. Per la faccia tosta e l’aria assente».
Il maestro dell’ambiguità.
«60%. Anche se non ho mai preso lezioni».
Geniale provocatore.
«20%. Nei giorni dispari».
Bananaman.
«5%, ma mi perseguita come un soprannome alle medie».
L’altro lato di Lucian Freud.
«0%: meglio non aprire quella porta».
Le sue opere usano pezzi di storia italiana ("Il Bel Paese”, le Br, le macerie degli attentati in “Lullaby") e nonostante ciò lei è l’artista più famoso all’estero. Come le è riuscito quel che non funziona con il cinema, accusato di non superare da tempo i confini?
«Non ho mai cercato di esportare l’Italia, ma di lavorare sulle sue crepe. Non punto sul folklore o sull’identità, ma su quello che rischia di crollare. Le contraddizioni funzionano in tutte le lingue. E poi, a differenza del cinema, non ho bisogno di doppiatori».
Notizie del WC dorato? Ci hanno rubato anche l’America che gli dà il titolo?
«Il WC è sparito, e con lui un certo immaginario. L’America, vista da qui, era una promessa di libertà e abbondanza. Oggi somiglia più a un confine che a un orizzonte. Il bagno d’oro parlava proprio di questo: desiderio, esclusione, potere».
Dei tanti riferimenti al suo lavoro nella cultura pop come “Charlie fa surf” dei Baustelle, quale l’ha divertita di più?
«Sono la miglior critica. Vuol dire che l’opera ha lasciato una traccia. Alcuni li ho usati per capire meglio quello che avevo fatto, altri mi hanno aiutato a continuare nei momenti difficili. Non sono semplici citazioni: sono come vaccini, allungano la vita di un’opera e la rendono più resistente».
C’è una reazione alla sua arte che l’ha davvero offesa?
«Anche le reazioni più dure sono benvenute: vuol dire che qualcosa è passato. L’indifferenza, invece, è più difficile da accettare. Non perché manca un giudizio, ma perché manca un contatto. Un’opera non deve dire tutto, ma qualcosa deve farlo intuire. Altrimenti resta muta».
Veniamo da un referendum, mancato, sulla cittadinanza. “Stadium” è del 1991. Quante volte dobbiamo giocare quella partita a calcetto?
«Finché continueremo a chiamarla partita non l’abbiamo capita. “Stadium” parlava di confini, di identità, di chi resta fuori. Allora si pensava fosse una metafora. Oggi è cronaca».
Ha esposto un monolite con l’elenco delle sconfitte calcistiche dell’Inghilterra. È pronto quello per l’Italia?
«Il calcio è l’unico linguaggio nazionale che ci unisce anche quando ci divide. Le sconfitte servono quanto le vittorie, di più: ci ricordano chi siamo e cosa possiamo diventare. Lo sport, quando non si lascia travolgere dagli eccessi, è uno strumento potente. Può cambiare una città, a volte perfino una nazione».
Un luogo ideale dove ricollocare «L. O. V. E.», la scultura con il dito medio, protagonista anche di Santa.
«Tutti abbiamo bisogno di “L. O. V. E. “, ma sta benissimo dov’è. Sono felice che Milano abbia scelto di farlo suo. Mi piacerebbe che quello spazio diventasse davvero una piazza: non un parcheggio, ma un luogo dove fermarsi, incontrarsi, vivere la comunità».
Oggi Palermo e Hollywood sono più vicine di quando lei ha messo la scritta sopra la discarica di Bellolampo nel 2001?
«Forse sì. Il cinema ha fatto molto per accorciare quella distanza. “Il Padrino”, “Il Gattopardo”, “White Lotus": in modi diversi, hanno raccontato la Sicilia al mondo. Il cinema può trasformare un luogo in un mito, alimentarne il desiderio. E a volte basta questo per farlo esistere un po’ di più».
«Shit and Die» mostra diffusa che ha firmato per Artissima 2014 ha lasciato un’eredità?
«È stata una mostra che mi ha fatto conoscere Torino in un altro modo: attraverso collezioni private, luoghi esoterici, strati di storia rimasti impressi nelle strade. L’abbiamo pensata come uno scroll infinito, dove link, note a piè pagina e frammenti di notizie si mescolavano senza sosta. Non solo curata, ma costruita insieme, come un montaggio in tempo reale. Mi ha dato molto. E mi sono divertito abbastanza da capire che la mia pensione poteva aspettare».
L’ha annunciata diversi anni fa, ma non ha mai smesso.
«Il ritiro non era una trovata, né un addio teatrale. Pensavo di aver chiuso. Volevo capire se esisteva un “fuori” possibile, e per un po’ l’ho trovato: in “Toiletpaper”, nella fotografia, nel cortocircuito tra immagine e oggetto. È stato come parlare un’altra lingua. Poi, senza rumore, è tornata la voglia di ricominciare. Non per nostalgia, per necessità».
Torino è davvero la città dell’arte contemporanea?
«Ha un’anima discreta, ma ostinata. Non ha bisogno di gridare per farsi notare. Con l’arte povera ha aperto una strada che arriva a oggi. Potrebbe candidarsi a nuova Berlino, lì l’arte non è mai rimasta ai margini: ha trovato luoghi, energie, alleanze. E continua a farlo».