La Stampa, 14 giugno 2025
Intervista a Sveva Casati Modignani
Il prossimo romanzo di Sveva Casati Modignani, per ora, è su un centinaio di fogli dattiloscritti poggiati sul tavolo del suo studio, a Milano. Accanto, c’è la Olivetti Valentine rossa con cui lo ha scritto. È la stessa da più di mezzo secolo: con quella macchina per scrivere, Sveva Casati Modignani ha firmato 38 libri vendendo 12 milioni di copie in 20 Paesi. Senza mai usare il suo vero nome, Bice Cairati.
All’inizio, dietro a quel nom de plume, c’eravate lei e suo marito, Nullo Cantaroni.
«Ma a scrivere iniziai io: volevo rievocare certi ricordi di famiglia. Fino a quando mio marito, leggendoli, mi disse: “Ti rendi conto che stai scrivendo un romanzo? Adesso ti aiuto io”. Fu un ottimo editor».
Dunque lui non scriveva.
«Leggeva e rivedeva. Anche se per anni in molti continuarono a dire: “Lui è a casa e scrive, lei va in giro a promuovere”. Tanto che, quando mio marito morì, la mia parrucchiera commentò: “Adesso che non c’è più, non leggeremo più niente di suo"».
Una perfetta diapositiva dei pregiudizi sessisti.
«Diffusi purtroppo anche tra donne: a volte, siamo le peggiori nemiche di noi stesse».
Accade anche tra scrittrici?
«Mi è capitato con qualcuna di essere guardata dall’alto in basso».
Eppure poche autrici vendono tanto quanto lei, anche all’estero.
«Sa che alcuni dei miei libri sono stati contraffatti?».
Contraffatti?
«Se ne accorse Sperling & Kupfer, il mio editore: sulle bancarelle delle città dell’Europa dell’est, c’erano i miei titoli con il nome storpiato: Sveva Rancati Pontignani».
Mica male per un’autrice che di sé ha detto: «Scrivo solo ciofeche».
«Massì, alla fine la letteratura è altro. E poi ho sempre tenuto a mente lo schiaffone che mi diede ottant’anni fa mia madre. Avevo preso un dieci e lode, tornai da scuola tutta contenta, lei mi gelò: “Chi si loda si imbroda”. E giù una sberla».
Un genitore d’altri tempi.
«Non ricordo un suo abbraccio. Il contrario di mio padre: affettuoso e con un senso ludico della vita».
Che lavoro faceva?
«Il commerciante di vino. Fino a quando, mia madre, una casalinga, decise che voleva fare la moglie dell’industriale. E papà, che la adorava, la accontentò: si mise a produrre fiale per le case farmaceutiche. Fu un disastro: mamma mi chiese di non iscrivermi all’università e iniziai a lavorare».
Il primo impiego?
«In un’azienda che produceva luppolo. Ero una segretaria fantasiosa e disastrosa: non stavo ferma, il titolare mi chiamava “Signorina Saltaruscelli”. Poco dopo finii a lavorare da un mercante d’arte, Carlo Cardazzo. Allestiva in via Manzoni, a due passi dal quotidiano La Notte. Così, poco dopo, iniziai a scriverci».
Si ricorda il debutto?
«Certo: un’intervista a una delle dive del primo ‘900, Joséphine Baker».
Come mai mandarono lei?
«Conoscevo il francese, e lei era a Milano per uno spettacolo. Mi raccontò dei suoi splendori passati – i bagni nello champagne, gli strepitosi gioielli regalati da principi e magnati – ma mi disse anche che non gliene importava più nulla: dormiva in alberghetti, si vestiva ai grandi magazzini, occupandosi solo dei bambini che aveva adottato».
Altri incontri memorabili?
«Luchino Visconti. Lo conobbi alla Mostra di Venezia: mi accolse dentro la vasca da bagno della sua camera, coperto dalla schiuma e con un sigaro in mano. Mi paralizzai, lui si mise a ridere: “Stasera a cena la metto a sedere vicino a me: io parlerò e lei si ricorderà di scrivere"».
Ma è vero che intervistò anche i Beatles?
«Quando, nel ’65, arrivarono a Milano, la hall dell’albergo che li ospitava era assediata. Scorsi una cameriera con un vassoio che diceva: “Vado a portarlo su, ai matti”. Mi infilai in ascensore e tirai fuori 200 lire, proponendole di prestarmi grembiule e crestina».
Accettò?
«Sì, ma appena entrai nella stanza, mi scoprirono subito. Feci appena in tempo a sentire un fortissimo odore: non sapevo fosse quello dell’erba. Andai in redazione e inventai l’intervista».
In quegli anni aveva già conosciuto suo marito?
«Lo avevo incontrato la prima volta a Parigi, quando avevo 19 anni: dopo il liceo linguistico, ero andata come ragazza alla pari da una contessa per perfezionare il francese. E lì, a una festa, conobbi Nullo: biondo, abbronzato, con gli occhi azzurri».
Vi sposaste subito?
«Macché, aveva moglie e figlia».
Fu una storia clandestina?
«Per un po’ sì. Una sera per parlarmi mi lanciò dei sassolini sotto le finestre, una notte mi svegliò con una serenata sotto il balcone. Fino a quando la moglie trovò alcune foto e delle lettere: andò dai miei, accadde il finimondo. Appena venne introdotto il divorzio, ci sposammo».
Dieci anni dopo firmaste insieme il primo romanzo. Come mai sceglieste uno pseudonimo?
«Un’idea dell’editore, Tiziano Barbieri: prese due grandi dinastie milanesi, i Casati-Stampa e i Litta-Modignani, e lì unì».
Iniziò un successo che dura da più di quarant’anni.
«Ancora oggi, ricevo lettere e regali dalle lettrici: pattine, centrotavola, portapenne. Alle presentazioni in Portogallo, mi hanno persino portato i bimbi da benedire».
Eppure pochi premi: non è mai stata candidata alla Strega o al Campiello.
«Andrea Camilleri, che ho molto amato, li ha mai vinti? Francamente non mi importa».
I lettori d’eccezione, però, non le sono mancati, a cominciare dal cardinal Ravasi.
«Quando lo conobbi a casa di comuni amici, la prima cosa che mi chiese fu: “Come mai un’autrice come lei non è nelle Garzantine?”. “Monsignore – risposi stupita – avranno i loro motivi. E poi, anche se mi citano, cosa me ne viene?”. Dopo che diventò cardinale, mi invitò a Roma: scorrazzammo una mattina in macchina sotto le insegne vaticane».
Nei suoi libri ha raccontato anche le lotte sindacali.
«Per scriverne, cercai Maurizio Landini. Confessò di non aver mai letto i miei libri, sua moglie invece era una lettrice entusiasta. Mi proposero di trascorrere le ferie insieme a Gabicce. È nata un’amicizia».
È sempre stata di sinistra?
«Per educazione e formazione. Quando Togliatti morì, papà pianse. Sono stata comunista fino a quando ha avuto senso esserlo».
Da sempre vive in una delle zone più popolari di Milano: via Padova.
«La mia casa fu costruita da mio nonno, nel 1907. Anche se allora di fronte non c’erano palazzi, ma campi attraversati da un ruscello».
Com’è cambiata la città?
«Un tempo era bella, e soprattutto era sicura: da giovane giornalista, rientravo di notte senza patemi. Adesso, di sera, ho paura di uscire».
Negli anni in cui lei era giovane, però, si sparava.
«Le bande ci sono sempre state, ma se andavi in giro non ti disturbava nessuno».
E i milanesi come sono?
«E dove sono ormai? La mia famiglia vive qui dal 1460, quando un maniscalco venne in città dalle campagne varesotte. Pensi alla nobiltà delle mie origini: altro che scrittrice, il mio capostipite era un fabbro!».