il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2025
L’ospedale Covid alla Fiera: dopo 5 anni tutto nei depositi
Ricordate, quando il Covid travolse la Lombardia nel 2020, l’ospedale tirato su di corsa in due padiglioni della Fiera di Milano? Fu un’idea di Guido Bertolaso, oggi assessore regionale al Welfare. Lo chiamavano “l’astronave”. Molti clinici non condividevano la scelta di separare le terapie intensive dagli altri reparti e di dividere medici e infermieri su diverse strutture. Passò alla storia per un costo enorme a fronte di appena 538 pazienti ricoverati tra l’autunno 2020 e il 2022: dovevano essere 400 letti, poi 300, poi 221 e alla fine 157. Secondo i rendiconti oggi disponibili spesero 14 milioni e mezzo su 25 milioni di donazioni, senza contare i costi del personale.
Report stasera su Rai3 ci racconta che (brutta) fine ha fatto gran parte delle attrezzature comprate allora e passate alla Fondazione del Policlinico di Milano, che sta costruendo un nuovo ospedale: “Verranno quasi tutte riutilizzate in parte, quelle che si può”, assicurano. Ma a tre anni dalla chiusura dell’“astronave” stanno per lo più nel magazzini, in particolare a Gallarate in un ex deposito dell’Aeronautica già usato per le vaccinazioni Covid e destinato – pare nel 2028 – a diventare un hub per le emergenze sanitarie. Alcuni letti non si capisce dove siano. Ci sono poi monitor, ventilatori polmonari, flussimetri, umidificatori, generatori per caschi cpap: “Hanno bisogno di temperature basse, di manutenzione e di essere attivati periodicamente – dice Maria Rozza, consigliere Pd in Lombardia – È chiaro che le temperature d’estate sono a 50 gradi e d’inverno magari sottozero”. Altri letti comprati allora non potevano essere utilizzati perché privi del marchio Ce: sono al vecchio Sant’Anna di Como, chiuso.
Il servizio ricostruisce la storia, dagli annunci trionfali del presidente lombardo Attilio Fontana, con tanto di benedizione dei padiglioni nel 2020, fino a Bertolaso che ancora si dice “orgoglioso” di quello che “qualcuno chiamava il Bertolaso Hospital”, promette a Report una visita a Gallarate che non è stata ancora possibile, assicura che “i letti ammassati negli angoli” ci sono “in qualsiasi ospedale d’Italia” e “si utilizzano solo al momento dell’emergenza”. Intanto i vertici lombardi incassano le lamentele di chi contribuì alle donazioni: “Non penso alla malizia, manca la cultura della trasparenza”, dice un avvocato che offrì diecimila euro.
Altro capitoli, i fondi (1,4 miliardi) stanziati con il dl 34/2020 ai tempi del commissario Covid Domenico Arcuri per aumentare i posti nelle terapie intensive. La Lombardia non ha utilizzato parte dei 225 milioni assegnati, è al 32,5% delle terapie intensive e al 31,1% delle subintensive: per Bertolaso sono “più che sufficienti”, la consigliera Rozza sostiene che “se scoppia una pandemia siamo come nel 2020”. Intanto al Niguarda di Milano usano quei fondi anche polo ospedaliero per le Olimpiadi invernali del 2026, sempre che lo completino in tempo. Secondo il ministero della Salute a livello nazionale siamo al 57,8% dei posti di terapia intensiva e al 59,7% di quelli di subintensiva finanziati, con ampie variabilità territoriali: l’Abruzzo ha fatto il 100%, Bolzano quasi, Trento 52 su 84, l’Emilia-Romagna è al 94%, Campania e Toscana al 72%, la Puglia al 47%, la Calabria al 30%, la Sardegna 50% intensiva e 15% subintensiva, Lazio 54% dei posti realizzati e solo 30% attivati, Piemonte 59% e 45% attivati, Valle d’Aosta 2 su 19, Basilicata 14 su 72, Molise zero.
La Lombardia non fa una gran figura anche sulle liste d’attesa, nell’altro servizio che Report manda in onda stasera. Anche qui ci sono risorse stanziate e non impiegate dalle Regioni: ben 288 milioni, il 21% di 1,37 miliardi destinati a questo scopo dal ministero, con punte dell’81% in Molise, del 66% e del 59% nel Lazio. Sui ritardi non ci sono neanche dati affidabili e aggiornati, come il Fatto ha scritto più volte, a un anno dal decreto legge varato come uno spot dal governo nel giugno 2024, alla vigilia delle Europee. “Istituiamo un sistema nazionale di monitoraggio, incredibilmente non esisteva, nessuno ci aveva pensato”, proclamava Giorgia Meloni. Ma i dati non sono ancora pubblici. Perché ci sono mille trucchi per nascondere i ritardi: agende chiuse, liste di galleggiamento, scomputo di chi rinunciata. E uno scontro tra il ministro Orazio Schillaci e le Regioni: pochi giorni fa è passato il principio dei poteri sostitutivi del ministero, ma la strada è lunga. A tutto vantaggio dei privati.