Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 15 Domenica calendario

«Pedalo ancora e adesso tifo per Papa Leone»

Per Eddy Merckx compiere ottant’anni è un dettaglio. Un numero tra gli altri: come cinquecento e passa successi tra strada e pista, cinque Tour, cinque Giri, diciannove classiche monumento, tutte vinte almeno due volte, e sette volte la Milano-Sanremo. E tre Mondiali oltre a uno da dilettante e un record dell’ora, non di più perché appena sceso dalla bici dopo l’ordalia promise a sé stesso che non sarebbe mai risalito su quell’arnese, promessa che durò mezza giornata. Pure due sospensioni per doping, quando questo non significava seppellire la carriera sotto una pietra giuridica: ti squalificavano, scontavi il peccato e spesso ricominciavi. A sentir lui, la prima fu una macchinazione per sottrargli un Giro che avevano cercato di fargli cedere a Gimondi per soldi. A sentir tutti, la seconda fu l’errore di un medico.
In bici va sempre, meno di quanto vorrebbe. «Mi sono rotto un’anca, sono sotto antibiotici e ho dovuto rallentare. Spero sia temporaneo». Giorni fa gli abbiamo chiesto come avrebbe passato il compleanno e lui: «Non lo so ancora. C’è tempo». Già. Il tempo privilegiato che si stira all’infinito quando sfiora un’icona. Nella sua quiete marmorea, Merckx passa questi mesi a raccontarsi. Del resto non è mai stato avaro di sé stesso. «In tanti anni, non credo esista una domanda che ancora non mi abbiano fatto». E pazienza.
Merckx, riesce a individuare un giorno, una corsa, un momento in cui si è reso conto di essere diventato Merckx?
«Diciamo che quando ho vinto la prima Sanremo, nel 1966, ho capito di poter vivere di ciclismo».
No, scusi: quindi se un corridore non vince una Sanremo ha sbagliato mestiere?
«Si metta al mio posto. Avevo vent’anni. Trecento chilometri, uno sprint con dentro Poulidor, Van Springel, Dancelli, Balmamion. Lì mi sono detto: va bene, forse non resterò eternamente in seconda fila. Per comprendere che dentro di me c’era più di un buon professionista ho dovuto aspettare ancora un po’. Il 1968, le Tre Cime di Lavaredo quando al Giro recuperai nove minuti a Bitossi. E il Tour dell’anno dopo».
Neppure Pogacar ha ancora vinto una Sanremo.
«Ci riuscirà».
Oggi probabilmente è diverso, ma all’epoca per emergere bisognava uccidere il re, staccare i propri capitani. Lei ha dovuto tradire qualcuno?
«Mi è stato risparmiato. Ho cominciato con Van Looy e là si sapeva che non c’era spazio per troppi galli. Sono passato subito alla Peugeot. L’uomo forte per il Tour era Pingeon, nelle altre corse niente capitani e poche regole».
E lei ha cominciato a vendemmiare. Una bambina, figlia di un suo compagno di squadra, la chiamò Cannibale e Cannibale è rimasto. Anche dopo centinaia di successi. Quando vincere in teoria non dovrebbe avere più sapore.
«Qui si sbaglia. La fatica e il piacere sono sempre gli stessi. Ogni volta che vai in campo o scendi in strada desideri vincere. Mi è capitato di partire pensando: oggi mi alleno e basta. Invece scattava la voglia».
Non sembra che questo atteggiamento la rendesse simpatico al resto dei corridori.
«Non ci avevo mai pensato. Probabilmente è così. A un certo punto la gente ha cominciato a correre solo per battere me. Ma io non intendevo cambiare. Dai miei genitori ho imparato che solo puntando al massimo si ottiene qualcosa. Avevano un negozio di alimentari, lavoravano tanto, e io andavo in giro con la bici a consegnare la merce».
Quella squalifica al Giro del 1969 le è rimasta nel cuore. Come un paletto di legno. Forse avrebbe potuto ribellarsi con maggiore decisione.
«Inviammo anche i campioni di urina a un medico legale, che non trovò niente. Rischiavo di perdere il posto in squadra. Non era lo sport di adesso, non si girava con gli uffici legali a rimorchio, e i soldi erano quelli che erano. Io avevo un agente che mi diceva a quali corse partecipare e basta».
Poi è cominciata l’epoca degli specialisti che si preparano per una corsa all’anno: i Lemond, gli Indurain.
«Un male per il ciclismo. È arrivato Pogacar che non si limita alle corse a tappe, vince su tutti i terreni e prova anche la Roubaix. Ovvio che il pubblico si entusiasmi e lo consideri un fenomeno».
C’è qualcosa in cui Pogacar è più forte di lei?
«Paragoni irricevibili. Tutto ciò che posso dire, senza trarre conclusioni, è che lui ha al massimo due avversari alla volta. Io solo in Italia ne avevo cinque o sei. A proposito, Del Toro mi sembra un ragazzo in gamba».
Ciclismo globale, ormai. Pagano le grandi potenze tradizionali.
«Non credo. La differenza maggiore la fanno i corridori dell’Est, che all’epoca erano tutti dilettanti. L’Italia sta soffrendo, è vero, e mi dispiace particolarmente dato che ho corso da voi per tanti anni. Per il rilancio servirebbe una squadra di punta».
Un avversario che ha temuto e odiato.
«Gimondi era il più regolare. Ocaña faceva male, tra alti e bassi. Non ho mai odiato nessuno, a parte Maertens quando regalò a Felice il Mondiale del 1973. Mi corse contro. Ma fu questione di una gara».
Sente ancora i suoi ex colleghi?
«Come no. De Vlaeminck, Van Impe, Zilioli. Anche Boifava mi chiama, ogni tanto».
Albert Bouvet in carriera vinse solo una Parigi-Tours. Si racconta che quando la incontrava le dicesse: «Io e te insieme abbiamo vinto tutto».
«Sì, è vero».
E lei come reagiva?
«Finché si scherza... Comunque non scambierei nessuna delle mie vittorie per una Parigi-Tours».
Ce ne sarà una che vale più delle altre.
«Il giorno più bello della mia vita: l’arrivo del Tour 1969. Erano trent’anni che un belga non vinceva il Tour. Ci pensavo da bambino, ci penso ancora».
Merckx, i suoi risultati agonistici li conosciamo. La sua vita familiare, il matrimonio con Claudine, i nipoti, tutto sembra perfetto. La sua immagine pubblica è impeccabile. Come c’è riuscito?
«Anche per questo devo ringraziare i miei genitori. Mi hanno insegnato a guardare sopra di me per puntare in alto e insieme sotto di me per rendermi conto, in ogni circostanza, di quanti meriterebbero più di ciò che hanno. Mi hanno spiegato che la mia vita è importante, ma lo è anche quella degli altri. E soprattutto mi hanno dato un consiglio: mai cambiare marciapiede per evitare chi ti viene incontro».
Si parla pochissimo della sua esperienza da commissario tecnico del Belgio. Eppure ha portato al titolo il signor Dhaenens.
«E Museeuw. Dieci anni belli. Però mio figlio Axel aveva cominciato a correre, c’è stata qualche incomprensione con il presidente federale. I corridori stavano cambiando. Era diventato difficile programmare allenamenti duri, proibire il vino a tavola. Ormai davano più ascolto ai loro nutrizionisti che a me. Ora mi limito a dare qualche consiglio ad Axel, che ha una squadra negli Stati Uniti. Un po’ di esperienza serve. Ehi, mi è venuta in mente».
Che cosa?
«Una domanda che non mi hanno fatto. Se mi piace il nuovo Papa. La risposta è sì, mi fa sperare. Mi piaceva anche Francesco, ma di pace ha parlato tanto senza arrivare a dama. Questo Leone mi sembra tosto».