Il Messaggero, 14 giugno 2025
Intervista a Paolo Virzì
«Sono sorpreso di essere arrivato a 61 anni perché come molti, quando ne avevo 18, pensavo di non superare i 40. I compleanni mi hanno sempre provocato disagio. Da ragazzino ero terrorizzato dall’idea di fare una festa: ero certo non sarebbe venuto nessuno e volevo evitare umiliazioni. Da allora scovo fantasiose alternative. Quando ne ho compiuti 50 mi sono operato. Ho scelto la data con perizia. I medici, l’anestesia, i camici: un’ottima scusa per pensare ad altro». Con oltre 20 film girati, un Leone d’Argento, 7 David di Donatello e una trentina di altri premi conquistati con un occhio al sorriso, al pianto e alla migliore stagione del nostro cinema, Paolo Virzì è arrivato fino a noi.
Cosa significa crescere a Livorno, davanti al mare?
«Avere un asciugamano sotto la sella del motorino e indossare un costume al posto delle mutande da aprile a settembre. Hai un momento libero, vai a fare un tuffo, mordi una torta di ceci e poi ritorni a fare le tue cose».
Cosa ricorda della primissima infanzia?
«Torino. Ci trasferirono papà, carabiniere, quando ero piccolissimo. Sono rimasto fino ai miei 8 anni non riuscendo mai a stabilire un vero legame con una città molto diversa da oggi che all’epoca mi appariva plumbea. Mio padre e mia madre, ex commessa di negozio in abbigliamento per bambini ed ex cantante, erano arrivati da emigranti e una famiglia di emigranti alieni al contesto, in fondo, erano rimasti».
Era la città del «non si affitta ai meridionali».
«La nostra unica relazione era con la famiglia di un altro emigrato, un fratello di mio padre. Io non avevo amici e mia madre, infelicissima, aspettava soltanto che trasferissero mio padre a Livorno. Una preghiera che si esaudì, mi pare, nel ’72. Livorno era la nostra città, il luogo in cui conoscevo tutti e in cui praticamente vivevo per strada. Abitavamo alle Sorgenti, a ridosso della zona industriale. Davanti a noi, nelle case popolari, si erano stabiliti i profughi istriani reduci dalle purghe titine. C’era un’atmosfera di film di Kusturica: accenti stranieri, madri che leggevano i fondi di caffè, odori di cucine che non somigliavano alla nostra. C’era qualcosa di magico e di licenzioso, qualcosa che mi attraeva molto»
A casa sua invece che atmosfera si respirava?
«Mio padre vestiva la divisa e si definiva apolitico e apartitico. In realtà veniva da una famiglia palermitana che durante il Fascismo se l’era passata bene perché nonno Mimì, il padre, carabiniere come lui, era andato in Etiopia ed era rimasto a lavorare con un’impresa che costruiva strade ad Addis Abeba. Prima della caduta del regime, i Virzì avevano acquisito censo e quattrini e la domenica andavano in giro in carrozza partendo dalla Vucciria».
Dopo?
«Persero tutto. Il nonno tornò a fare il carabiniere e nonostante il cambio di prospettiva, la retorica del “si stava meglio quando si stava peggio” in famiglia resisteva. Tutti i fratelli di mio padre erano missini e lui, che secondo me votava a destra, essendo un militare preferiva non esplicitare la scelta. Poi papà incontrò mia madre e cambiò tutto. Si fece adottare dalla dolcezza, venne contagiato dalla cordialità e si piegò a convinzioni molto lontane da quelle di casa sua. La storia dell’altro nonno, Carlo, il padre di mia madre, che non era comunista perché, ripeteva, “ripudio le dittature di ogni colore”, ma che da socialista socialisteggiante, senza tessera del Pnf, durante il Fascismo aveva assaggiato l’olio di ricino, preso le botte e perso il lavoro, lo aveva colpito».
Era un’epoca senza telefonini, con poche fotografie.
«Carlo era un melomane e un grande compilatore di cruciverba. La Settimana Enigmistica metteva in palio premi per i lettori che mandavano i loro e il nonno ne vinse molti. Un registratore Geloso per la musica e una Super 8. Abbiamo girato filmini familiari per anni, mio fratello li conserva tutti».
Quando li rivede cosa prova?
«Penso che le abitudini hanno un’origine. C’è mia madre con una sigaretta che mi allatta con le finestre chiuse sul gelo di Torino. Sono cresciuto in mezzo alla nicotina, che non riesca a smettere di fumare, ammesso che non sia una scusa, è quasi ovvio».
Sua madre, mi ha detto, era stata una cantante.
«Le piaceva la musica leggera e a casa guardavamo Sanremo con i testi sotto gli occhi. Eravamo imparentati alla lontana con Claudio Villa. Andammo dal reuccio al Teatro Goldoni. Dietro le quinte, a fine concerto, ci regalò delle camicie sudate e troppo corte con le iniziali CV che non indossò mai nessuno. La vera passione di mia madre era parlare. Aveva un carattere molto socievole, persino troppo».
Troppo come?
«Era festosa, allegra, sbaciucchiona. Attaccava bottone con gli sconosciuti come con chiunque. Fare un viaggio in treno con lei significava accettare che dopo mezz’ora tutti sapessero la storia della mia famiglia. Divertente, ma anche imbarazzante. L’euforia nascondeva il lato ombroso, i momenti di fortissima depressione che a volte la investivano, eredità di un dolore: aveva perso un bambino nato morto quando io avevo 5 anni. Quel trauma, pur avendola cambiata in profondità, nell’altalena continua degli stati d’animo, non aveva fatto del tutto scomparire il lato giocoso».
La sua adolescenza?
«Per un ragazzo delle Sorgenti iscriversi al Classico, regno dei ricchi rampolli della Livorno sud, non era scontato. Mi decisi perché la professoressa di lettere delle medie, appassionata ai miei temi, si era raccomandata: “Studi umanistici”. Dopo i primi due anni senza infamia e senza lode, al terzo, anche per una certa estraneità al contesto, ebbi una crisi esistenziale, abbandonai gli studi e per qualche settimana andai a fare l’operaio con un mio amico. Sveglie all’alba e perizie sui container al porto industriale. Mi recuperò un’insegnante: “Smettere di studiare perché i tuoi compagni ti stanno antipatici è demenziale”. Era stato appena inaugurato un liceo sperimentale e scelsi l’indirizzo socio pedagogico: con un mese di tirocinio alle elementari ottenevi una licenza per dare supplenza. Completai gli studi, iniziai l’università dando subito molti esami e poi mi fermai. L’ammissione al corso di sceneggiatura del Centro Sperimentale di Cinematografia cambiò tutto».
Come andò?
«Con qualche compagno del liceo, tra cui Francesco Bruni, mettemmo in piedi una compagnia teatrale. Una cosa abbastanza cazzona che dava vita a spettacolini dimenticabili. Venimmo invitati a Fondi, al limitare di un premio teatrale minore e in quella giuria c’era Giuseppe De Santis: “Il problema del cinema italiano è la mancanza di sceneggiatori, perché non provi a entrare al Centro?”. Lo ringraziai escludendo l’ipotesi».
Poi?
«Poi, con il plico necessario a completare la domanda, vidi un bigliettino accompagnato da una calligrafia elegantissima: “Speriamo che ci ripensi! Peppe De Santis"».
Cosa ricorda dell’esame di ammissione?
«Consisteva in due fasi. Nella prima vedemmo e commentammo un episodio de L’oro di Napoli. Nella seconda consegnammo un soggetto. Finii prima di tutti. Mi vergognavo a consegnare in anticipo e mi diedi alle caricature degli esaminatori. In cattedra, tra gli altri, c’erano Suso Cecchi D’Amico, Gianni Amelio e Giuliano Montaldo. Mi concentrai su un omone che scoprii essere Leo Benvenuti e mentre disegnavo sentii una mano sfiorare la spalla. “Il naso è più piccolo” disse. Poi prese la matita, corresse il tratto e con un sorriso ironico domandò: “Ma tu, da dove vieni?”, “Da Livorno”. Quel signore era Furio Scarpelli e a quarant’anni di distanza sono ancora convinto mi abbiano preso perché lui faceva le vacanze a Castiglioncello o perché Montaldo aveva in simpatia i portuali di Livorno. Di cinema, in fondo, non sapevo niente».
Non aveva fatto nessuna esperienza?
«Il fotografo per squadrette locali di calcio, un paio di filmini per matrimoni, e qualche tremendo spot per la Benedetti Elettronica che, comprata un po’ di attrezzatura, confezionava le pubblicità per i negozi livornesi: “Ottica Mugnai in piazza Attias, una questione di stile”. Ci svoltavo qualche soldino, ma di sicuro non volevo fare il regista. Al limite, con poche velleità, il romanziere. Avevo letto Dickens e poi, più in là, Steinbeck e Fante. Che non sarei diventato come loro mi era abbastanza chiaro».
Non voleva fare il regista e a Roma non era mai stato prima.
«Per i funerali di Berlinguer mi infilai in un pullman e raggiunsi Roma. Poi ci mi stabilii perché da Livorno comunque volevo andare via. Ora ci torno volentieri, ma all’epoca volevo solo fuggire. Sono diventato livornese nel giorno in cui ho lasciato Livorno».
Come fu l’impatto con la metropoli?
«Mi impressionava la vastità ed ero rapito dalla periferia. Fontana di Trevi era bella, ma ero curioso del Corviale, del Laurentino 38 o di Primavalle. Leggevo Bukowski, cercavo il pericolo, la letteratura, il margine».
Prima abitazione?
«La pensione Marisa in Via Marsala, al terzo piano di un palazzo scorticato, con le ragazze nigeriane che dividevano l’erba e mentre strimpellavo la chitarra intonavano Bob Marley. Facevo svanire affari e concentrazione. Un giorno un ragazzo africano mi puntò un coltello alla gola. Mi disse che le “sista” non potevano perdere tempo e che era arrivato il momento di lasciare quella sistemazione».
Andò a vivere in una vera casa?
«Con Francesca Neri, che, appena arrivata da Trento, divideva con il fratello un appartamento al Nuovo Salario. Presi una stanza a meno della metà del denaro garantito dalla borsa di studio. Oggi per frequentare il Centro devi pagare una retta: l’ascensore sociale, ai tempi del pentapartito, aveva una sua efficacia».
Quando i soldi non bastavano? «Mi industriavo. In fondo per tirare su due lire, tra i mille lavoretti occasionali, da ragazzo avevo fatto anche il mozzo sulle navi. Era divertente. Sulla Livorno, Sanremo, La Spezia, Calvi, Bastia ero piccolo di camera, l’ultimissimo gradino. Non rimettevo a posto le stanze dei turisti, ma quelle del personale di bordo. Pulivo i cessi e gettavo l’immondizia. Lo stipendio era più alto di quello di un operaio e se facevi qualche straordinario al bar con le mance o ti perdevi nei casinò o nei vicoli delle città con l’equipaggio, potevi vivere esperienze notevoli».
Che succedeva nei vicoli?
«Cose turpi e tenerissime. Ero il più giovane di tutti e i miei compagni stabilirono sghignazzando che una volta sbarcati a Genova avrei perso la verginità. Mi portarono dalla Pina che in Via Prè li aveva svezzati tutti, mi spinsero dentro questa porta e mi trovai davanti a una signora che aveva più anni di mia madre. Tirai fuori le mie 10.000 lire e la pregai: “Per favore, stiamo qua il tempo che ritiene necessario, chiacchieriamo, dormiamo, facciamo quello che vuole, basta che non dica che mi sono tirato indietro”. Quando mi chiesero il resoconto inventai un amplesso bestiale. Avevo 16 anni, non avevo fidanzate e con le ragazze ero molto impacciato».
Oltre alla borsa di studio come si guadagnava da vivere?
«Grazie ad Alberto Silvestri, il padre di Daniele, un uomo dolcissimo, molto intelligente, buono e silenzioso, coautore tra le altre cose del Costanzo Show e di Buona Domenica. Tra gli sceneggiatori si era sparsa la voce che per quelle trasmissioni c’era bisogno di contenuti e non pochi tra noi trascorrevano la domenica negli studi del Safa Palatino per offrire situazioni e scenette che ci venivano pagate sull’unghia. A volte tornavi a casa con una piccola fortuna e questo miracolo si ripeteva per 4 volte al mese. Dissi a mia madre: “sto guadagnando” e nel suo sguardo colsi l’incredulità. Poi accadde una tragedia».
Quale tragedia?
«Age e Scarpelli, i più grandi sceneggiatori del cinema italiano, si separarono e Furio, che era abituato ad avere qualcuno accanto da maltrattare, mi portò con sé. Ho visto cose meravigliose in quegli anni. Scarpelli e Scola, durante le riunioni in cui Maccari ascoltava distrattamente fumando sigarette e allineando cilindri di cenere con attenzione certosina sul bordo della ceramica, se le cantavano di santa ragione e si insultavano in maniera terrificante: “Sei uno stronzo, un vigliacco, un fascista”. Poi si riappacificarono: “ti voglio bene”, “ti voglio bene anche io”. Scarpelli litigava con Ettore almeno una volta al giorno: si mandavano a fare in culo sbattendo rumorosamente la cornetta del telefono e poi si richiamavano brevemente per confessarsi il reciproco affetto».
È stato fortunato a poter vedere tutto questo?
«Ho avuto tantissimo culo, certo. Non avevo il fuoco sacro della cinefilia e ho fatto quasi 25 film. Ho conosciuto i grandi di un’epoca finita per sempre: Mastroianni, La Capria, Fellini: uno che in fondo col cinema c’entrava poco, ma aveva a che fare con i fumetti, con l’infanzia, con il sesso, con il viaggio nella psiche umana e con i nostri errori».
Prova nostalgia?
«Per certe fregnacce, per certe bugie meravigliose, per Mastroianni che chiama i fiammiferi “prosperi” e si mette ad ascoltare le riunioni a Fregene preoccupato di non disturbare, per chi aveva uno sguardo sulla realtà che non permetteva nessun fanatismo, soprattutto verso sé stessi. Era gente che pensava che la macchina da presa fosse un elettrodomestico come il phon, il frullatore o la lavatrice».
Di attori ne ha conosciuti tanti.
«All’epoca della compagnia teatrale livornese a volte recitavo anch’io. Ho grande ammirazione per chi sa fare quel lavoro: un mestiere coraggioso, sfacciato e molto destabilizzante. Non ho mai conosciuto un attore veramente felice. Gassman: che profondamente depresso era convinto di aver sprecato la sua vita con il cinema o Mastroianni che nello studio di Giovanna Cau, attaccato a una bottiglia di grappa alla pera, singhiozzava e si mostrava vulnerabile come tutti noi me li ricordo bene».
Perché secondo lei gli attori sono così fragili?
«Perché fanno l’unica professione artistica in cui non si vende un disegno, una pagina o una canzone, ma la propria persona».
E i registi?
«Ti puoi nascondere e mascherare dietro i film. È più facile imbrogliare. In questa finzione c’è qualcosa di gratificante. Il regista è un chiromante impostore, un tipo che legge i tarocchi ai bordi della strada: ti sta imbrogliando, ma per qualche misteriosa ragione tendi a credergli».
Ha passato decenni dietro la macchina da presa.
«Anni volati. Permettersi il lusso di continuare a essere infantile è stato bellissimo».
Quanto è cambiato negli ultimi 30 anni?
«Pochissimo e tantissimo. Tutte e due le cose».