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 2025  giugno 13 Venerdì calendario

Tom Daley: «Senza tuffi una parte di me è morta. A 10 anni dissi ai miei genitori che mi sarei buttato dalla finestra»

«A 31 anni sono un atleta in pensione. Ma vuole sapere la verità? È dannatamente difficile capire cosa sia una vita normale». Tom Daley è in video collegamento dalla sua casa a Los Angeles. Il suo studio sembra una merceria con gli scaffali che traboccano di gomitoli di lana colorati. Lo avevamo lasciato ai Giochi di Parigi con l’argento al collo nel sincro misto dalla piattaforma. La gara d’addio del ragazzino prodigio che dal primo tuffo a 7 anni è riuscito a diventare una icona dello sport britannico e mondiale. Cinque Olimpiadi e cinque medaglie, quattro ori mondiali, il primo a 15 anni ai Mondiali di Roma 2009. «La piscina del Foro Italico è nel mio cuore. Ho il rammarico di non aver girato l’Italia come avrei voluto. Devo tornarci, adesso ho più tempo libero…».
Senza tuffi è più felice?
«Mhm. Devo ancora abituarmi. Mi sono tuffato per 23 anni, ogni minimo momento della giornata era scandito, quando mangiare, quando allenarmi. Una parte di me è come morta, nel senso che l’adrenalina dei tuffi non la potrò mai più vivere. Adesso guardando le gare mi chiedo: potrei fare meglio di loro? Potrei ancora farcela?».

Davanti alle telecamere abbiamo sempre visto il suo sorriso pieno e coinvolgente. Invece adesso scopriamo tanti lati oscuri. Li racconta senza maschere nel documentario «1.6 seconds», una produzione Warner Bros. Discovery, già disponibile in streaming su Discovery+. Sarà in prima visione su Eurosport il 23 giugno in occasione dell’ Olympic Day. Svela il bullismo dei compagni di scuola e dell’allenatore che lo prendeva in giro per la trasformazione del suo corpo da ragazzino a uomo. Racconta di attacchi di bulimia e dell’ossessione per le calorie. «Per molto tempo mi sono nascosto, per proteggermi. Ho voluto parlare apertamente dei miei disturbi alimentari perché all’epoca quando ne soffrivo mi vergognavo, gli uomini fanno fatica a parlarne pubblicamente».
Questo documentario vale come una seduta terapeutica per lei?
«Ci sono stati momenti dolorosi di introspezione. In cuor mio spero però di aiutare le persone a sentirsi meno sole nell’affrontare qualsiasi tipo di problema, non come mi sono sentito io».
C’è una telefonata ai suoi genitori in cui lei dice: adesso mi butto giù dalla finestra.
«Quando a 10 anni ti trovi dall’altra parte del mondo, per allenarti in Australia o in America, ti senti solo, soffri di insonnia, le ombre diventano malefiche. I miei non volevano un figlio campione, erano persone semplici, mio padre a un certo punto ha lasciato il lavoro da elettricista per seguirmi. Aveva capito che dovevo essere sostenuto».
Papà Robert girava spesso con una piccola telecamera in mano. Lei da piccolo ne era infastidito.
«Sono filmati inediti, alcuni non li avevo mai visti. Ero seccato: papà basta, non riprendermi, vattene! All’epoca non pensi che tuo padre possa morire. Queste immagini sono un tesoro, sono grato di averle. E poi, faccio lo stesso io con i miei figli, li riprendo in continuazione con il telefonino».
Suo padre muore a 50 anni per un tumore al cervello. Era il 2011, lei aveva 17 anni e c’era un’intera nazione che l’aveva già eletta eroe delle imminenti Olimpiadi in casa, quelle di Londra 2012.
«Vuole sapere come sono riuscito a conquistare il bronzo? Nella mia mente mi ripetevo: papà era orgoglioso di vederti gareggiare; quindi, Tom ora tu devi fare il tuo tuffo migliore, fallo per lui».
Altri lati oscuri. Viveva prigioniero delle superstizioni. E con una forma d’ansia così forte e a tratti invalidante, soprattutto prima delle gare. Si mangiava le unghie fino a farle sanguinare.
«Il titolo del documentario è “1.6 seconds” cioè il tempo tra lo stacco dalla piattaforma e l’ingresso in acqua. I tuffi sono molto fisici ma altrettanto mentali. Tuffarsi può essere pericoloso, devi essere sempre concentrato. Ritrovarsi a 10 metri d’altezza può essere spaventoso».
Nel 2013 il coming out con un video su YouTube. Svela la relazione con Dustin Lance Black, sceneggiatore americano (premio Oscar per il film Milk del 2008). Siete sposati, avete due figli avuti da madri surrogate, Robbie e Phoenix di 6 e 2 anni. Dopo il coming out è diventato un opinion leader per i diritti LGBTQ+
«Ho svelato la mia omosessualità perché volevo essere me stesso, senza preoccuparmi di niente e nessuno. Poi però è cambiato tutto, ho realizzato che dovevo assumermi questa responsabilità, difendere ciò che tutti dovrebbero avere: il diritto di essere sé stessi e liberi».
Vive a Los Angeles per essere più tranquillo?
«Per più di 10 anni mio marito è stato a Londra con me quando mi allenavo. Era ora di restituire la disponibilità. Con il ritorno di Trump le cose stanno cambiando, in generale tutto il mondo sta tornando indietro in tema di diritti. Ecco perché è importante essere visibili, in maniera autentica, con cura e gentilezza».
L’amore per la maglia e l’uncinetto. Un hobby iniziato come antistress durante le gare. Adesso le sue creazioni sono una linea di moda «Made With Love by Tom Daley», presenta un reality in tv. Sui social spopolano i video dei Vip a cui recapita maglioni personalizzati, da Ariana Grande a Sharon Stone.
«L’ultima consegna l’ho fatta tre giorni fa a mio marito. Un maglione a sorpresa per il suo compleanno».