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 2025  giugno 13 Venerdì calendario

«Il segreto di Caravaggio? Fillide, l’amante ritratta in 3 dipinti diversi. Così ritrovai la Cattura di Cristo, il suo quadro sparito nel nulla»

Finalmente tutte e tre vicine, come in un confronto all’americana.
«La Giuditta di Palazzo Barberini, la Santa Caterina che sta al Thyssen di Madrid, Marta e Maddalena del Museo di Detroit. Tutte insieme nella stessa stanza, a Palazzo Barberini, a Roma, nella mostra di Caravaggio che sta accogliendo centinaia di migliaia di visitatori da tutto il mondo. Giuditta, Santa Caterina e Maddalena sono la stessa donna, Caravaggio usò la stessa modella».
Chi?
«È verosimile che si tratti di Fillide Melandroni. Che era stata probabilmente l’amante di Caravaggio. Fillide poteva essere stata l’amante anche di Ranuccio Tommasoni, l’uomo che venne ucciso da Caravaggio».
È possibile che lo scontro tra Caravaggio e Tommasoni per i futili motivi di una partita di pallacorda avesse un precedente legato a motivi sentimentali, e quindi a Fillide?
«Chissà, può darsi. Le fonti parlano di un debito di diecimila scudi e poi del solito carattere, incline alla violenza, di Caravaggio. Ma c’è un altro mistero ancora: abbiamo una foto di un ritratto che Caravaggio aveva fatto a Fillide, in cui però la donna non sembra la modella dei tre dipinti di cui sopra. Però potrebbe essere che l’abbia in un certo qual modo idealizzata e quindi trasformata».
Perché c’è solo la foto e non il quadro?
«Perché Il Ritratto di Cortigiana fa parte dei quadri scomparsi a Berlino a seguito dell’incendio della Flakturm Friedrichshain del maggio 1945».
Più che scomparsi, sono andati distrutti.
«Non so se è una speranza o una sensazione, ma credo che alcuni di quei quadri non siano mai andati distrutti. L’arte è una cosa che resiste a tutto, anche alla fine di un conflitto mondiale. Non so quando ma prima o poi verranno fuori, da qualche parte…».
Di quadri misteriosamente riapparsi dal nulla dopo secoli Francesca Cappelletti ne sa qualcosa. Alla direttrice della Galleria Borghese di Roma, che insieme a Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon è curatrice della mostra Caravaggio di Palazzo Barberini a Roma, si deve l’attribuzione a Michelangelo Merisi della Cattura di Cristo. Un lavoro quasi da detective, che Cappelletti fece nei primi anni Novanta insieme alla collega e amica Laura Testa. Entrambe erano dottorande, all’epoca. Non c’erano i telefoni cellulari, tutto partì da un elenco telefonico.
È la storia del quadro che non c’è.
«Per le ricerche del dottorato, avevamo la necessità di rintracciare l’archivio della famiglia Mattei. Ciriaco Mattei, fratello del cardinale Girolamo, era stato mecenate e patrono di Caravaggio durante la sua permanenza a Roma, agli inizi dei Seicento. La prima cosa fu prendere un elenco telefonico della Sip e cercare uno degli eredi Mattei a Roma. Una volta trovato, ci disse che l’archivio di famiglia si trovava ormai a Recanati, il luogo in cui si era spostata la famiglia».
Come funziona una ricerca d’archivio di questo tipo?
«Può funzionare che passi ore, giorni, settimane, a volte mesi a spulciare carte e appunti che non servono a nulla, tipo lo stipendio versato al giardiniere, il prezzo del grano e cose così. Poi a un certo punto basta imbattersi nella riga giusta di un’annotazione e cambia tutto. Noi trovammo la spesa di questi centoventicinque scudi pagati per un’opera commissionata a Caravaggio che aveva per soggetto proprio la presa di Cristo nell’orto degli ulivi, nel gennaio del 1603».
La Cattura di Cristo.
«Il quadro era scomparso. Ne esistevano molte copie e quindi si poteva fare un’idea della composizione, certo; ma il quadro Mattei era introvabile, sembrava sparito nel nulla, a Edimburgo, agli inizi del Novecento».
E quindi, che cosa succede dopo?
«Avendo saputo delle nostre ricerche, una persona che inizialmente scambiai per una specie di stalker iniziò a contattarmi dicendo che aveva delle informazioni che potevano interessarmi».
Chi era?
«Il grande restauratore Sergio Benedetti, che aveva scovato questo quadro a Dublino in una casa di gesuiti. Sorvolo perché sarebbe troppo lunga su una serie di passaggi storici ma in sostanza è andata così: lui aveva il quadro, che era stato nel corso di qualche passaggio attribuito erroneamente a Gherardo delle Notti; noi avevamo la prova che era stato commissionato da Ciriaco Mattei a Caravaggio, con tanto di spesa e di saldo alla consegna del dipinto. Da lì l’attribuzione a Merisi del quadro misterioso».
Tutto questo, il presente e il passato, ha fatto di lei una sorta di Lady Caravaggio di caratura internazionale.
«Mi crede se le dico che ho resistito per anni alla tentazione di diventare, come li chiamano, una Caravaggio scholar? Caravaggio è un mondo a sé: dietro ogni quadro c’è sempre lui, dietro di lui c’è una storia sempre diversa. Se inizi non finisci più, può durare una vita e forse neanche ti basta. Per questo ho provato a più riprese e in più momenti della mia vita a dedicarmi ad altro: la tesi di dottorato, per esempio, l’ho fatta su Paul Brill, mi sono appassionata agli studi sulla pittura di paesaggio… Ma sempre a Caravaggio, poi, sono finita».
Qual è la prima cosa che fa la co-curatrice di una mostra come quella di Palazzo Barberini?
«Un progetto scientifico serio, sulla base del quale si chiedono le opere in prestito in giro per il mondo».
Da direttrice della Galleria Borghese fa anche la prestatrice di opere in giro per il mondo.
«Vale lo stesso discorso al contrario. Valutiamo il progetto scientifico di una mostra e poi prestiamo».
Come vive il prestito di un’opera?
«Con l’ansia, sempre. La accompagno fino all’uscita quando parte. Vado ad aspettarla all’ingresso quando rientra».
È figlia d’arte?
«Nella mia famiglia hanno sempre fatto altro, soprattutto giurisprudenza».
Il suo percorso?
«Laureata alla Sapienza in tre anni e una sessione. Poi la specializzazione, il dottorato, poi un po’ di Inghilterra, una borsa di studio a Parigi e sono tornata in Italia di nuovo all’università. A pensarci bene, non è che abbia avuto così tanta fantasia».
Be’, è la direttrice della Galleria Borghese, uno dei luoghi più famosi al mondo.
«Un posto dove puoi lavorare venti ore al giorno senza neanche renderti conto che stai lavorando. (Passiamo di fronte ad Apollo e Dafne, gruppo scultoreo realizzato dal Bernini tra il 1622 e il 1625, ndr). Ecco, per esempio, le radici intrecciate di cui prendono la forma le gambe di Dafne, la precisione di Bernini nel dare movimento al momento in cui Apollo la prende… Non conto le ore, i giorni che ho trascorso solo a guardare le radici. Pensi il resto!».
Secondo lei, come dovrebbe affrontare una mostra un profano, una persona a digiuno di storia dell’arte? Studiare prima e poi presentarsi all’appuntamento coi dipinti?
«No. Girare per la mostra nell’attesa che qualcosa catalizzi la sua attenzione. E da lì, nel caso, approfondire».
Ha trasmesso la sua passione al resto della sua famiglia?
«Mio marito, avvocato, era già un appassionato. Mio figlio ha vent’anni: quando va in viaggio all’estero coi suoi amici, mi telefona per dirmi che è stato a visitare un museo. Da bambino e da adolescente non dava l’impressione di avere questa voglia».
Qual è la parte del suo lavoro che le piace di più?
«Lo studio. Resto un’appassionata di carte, di archivi; di quell’attività fatta di ore, giorni, settimane e mesi buttati su cose all’apparenza senza importanza prima che la lettura della riga di un quaderno dia un senso a tutto il lavoro. Il racconto di un’opera è in continuo divenire perché non si finisce mai di scoprire tutto quello che è successo attorno. A me piace quello che è successo attorno. Lo stesso quadro del Settecento, due secoli fa veniva raccontato in un modo, oggi in un altro. E sempre per lo stesso motivo: sappiamo di quello che è successo attorno a un’opera cose che prima non sapevamo».