La Stampa, 13 giugno 2025
La tentazione di Scorsese: “Dovevo diventare prete scelsi la fede del cinema”
Se non proprio come un santo, Martin Scorsese è accolto al festival di Taormina come il nume tutelare del cinema. E il cineasta, 82 anni, alle spalle un pezzo della New Hollywood, nel futuro tanti progetti, affronta con il sorriso una maratona: il bagno di folla, le locandine sbandierate dai fan, le domande degli studenti e quelle dei giornalisti, la serata trionfale al Teatro antico che celebra Taxi driver, il film che compie cinquant’anni nel 2026: «Nessuno di noi ci credeva, ogni giorno sul set una battaglia. Un’esperienza terribile a parte gli attori. C’era Bob De Niro, la scena allo specchio la improvvisò, gli dissi “dì qualcosa a te stesso”: fu meraviglioso. Malgrado le angosce facemmo il film col cuore». Ai ragazzini che lo guardano adoranti, Scorsese spiega che «di ostacoli ne ho superati tanti», elenca «dopo New York, New York ebbi una rottura devastante. Furono tempi pericolosi, poi arrivò Toro Scatenato. Nessuno voleva finanziarmi L’ultima tentazione e Gangs of New York. Ho sempre tenuto duro e vi dico: avete tutto ciò che vi serve, non ci sono scuse». I suoi film piacciono al pubblico ancora oggi, «forse significa che sono riuscito a trasmettere qualcosa di vero». Nel futuro del regista ci sono progetti su papa Francesco, su Gesù e la seconda stagione di una serie sui santi: «Lavoro alla storia di Cristo ambientata oggi. L’idea di un film sui vangeli nei quartieri poveri di New York in cui sono cresciuto mi venne nei ‘60, poi vidi Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e mi dissi: basta, devo trovare un’altra strada. Anni dopo diventò L’ultima tentazione, che mi portò a Kundun e a Silence. Se avrò ancora tempo, vorrei girare la vita di Gesù dal libro omonimo di Shosaku Endo (lo stesso autore di Silence, ndr.)». Nel frattempo a Roma gira la serie sui santi e prepara un docufilm basato sulle sue conversazioni con papa Bergoglio, «discutevamo su cosa significhi essere un santo». Il nuovo papa americano, Leone XIV, «non me lo aspettavo, ma ho molte speranze. Ma non importa se argentino, nigeriano, filippino… Devi essere il Papa di tutti. Oggi la Chiesa deve aprirsi al mondo. Leone ha parlato di pace ma io intendo non solo quella politica, bensì quella che riguarda la conoscenza, il rispetto per gli altri, l’assenza di avidità». L’interesse per la religione nasce dal fatto che «da giovane trovavo conforto nella cattedrale di San Patrizio, c’era un prete in gamba, severo, ci faceva vedere film, leggere libri. Un mondo diverso da quello che mi circondava. Soffrivo di un’asma terribile, non facevo sport, ero sempre parcheggiato al cinema o in chiesa. Il mio destino era segnato: cinema o sacerdozio. Dopo sei mesi in seminario capii che non c’era stata la “chiamata”». Nel frattempo si apriva la strada del cinema «ma gli elementi religiosi sono presenti nei miei film, anche in Taxi driver, o in Toro scatenato, l’idea della ricerca spirituale».
Lui che si considera un italiano nato a New York affronta il tema dell’immigrazione guardando ai moti californiani: «È una storia che si ripete. È successo anche con gli italiani. Ogni nuovo gruppo che arriva in questa democrazia “sperimentale” viene guardato con sospetto. Il paese continua a introdurre nuove culture. E ogni cultura va assimilata». La democrazia americana è in pericolo in questo momento? «Totalmente. Non sono uno storico ma mi pare che siamo a un livello di pressione prossimo a quello della Guerra civile del 1860. La spaccatura è evidente, servirà almeno una generazione perché i rapporti diventino più distesi. Magari migliorerà con la fine di questa amministrazione». Deluso dall’esito delle elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca, «in questa amministrazione non vedo compassione. Anzi, sembra che si compiacciano nel ferire, umiliare. A volte penso: sì, questa potrebbe essere la fine della democrazia. Ma poi mi dico: no, forse sta solo venendo messa alla prova». Due i nodi centrali: «Il primo è quanto potere può esercitare un presidente. Il secondo è quanto a lungo il popolo americano sia disposto a tollerare politiche dai costi sociali ed economici pesanti, come nel caso dei dazi».