il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2025
Sesso, party, viaggi o shopping: il senso di Loti per il piacere
“Ho per regola di condotta quella di fare sempre ciò che mi piace, a dispetto di ogni moralità e convenzione sociale”. Questa frase, tratta dal suo primo romanzo Aziyadé (1879), è il manifesto di una vita vissuta come un’opera d’arte. Ufficiale di marina, romanziere di successo eletto all’Académie française a soli 41 anni, collezionista bulimico, instancabile viaggiatore, controverso, eccentrico dandy, dalla sessualità ambigua… questo era Pierre Loti, nato a Rochefort nel 1850 col nome di Louis Marie Julien Viaud, un uomo fuori dal tempo. La filosofia anticonformista che lo accompagnò tutta la vita, si manifestò nel modo più puro nella sua dimora: una residenza borghese, nella tranquilla regione della Charentes, che trasformò in tempio dell’illusione, un labirinto di stanze concepite come scenografie esotiche. Diventata museo nel 1973, la dimora di Pierre Loti (1850–1923) ha riaperto le sue porte il 10 giugno dopo 13 anni di silenzio e di restauri monumentali. In queste stanze lo scrittore mise in scena la propria esistenza: il Salone turco, ornato da un soffitto di stucchi ispirato all’Alhambra di Granada, dove fumava il narghilè, la Pagoda giapponese, un bric-à-brac di lanterne, bambole, maschere, armi, la Camera delle Mummie, con le reliquie egiziane, la Sala Gotica, popolata da mostri che evocano un Medioevo idealizzato. E poi la monumentale Sala Rinascimentale, tappezzata di arazzi e ritratti di famiglia, dove Pierre Loti organizzava stravaganti feste in costume, in cui lui stesso si travestiva da sultano o samurai. Come il celebre ricevimento cinese dell’11 maggio 1903, a cui parteciparono non meno di 250 ospiti, leggendario per alcuni critici, patetico e ridicolo per altri.
Loti aveva fatto del travestimento uno stile di vita. Il suo modo di inseguire un ideale estetico, insieme fuga dal tempo che passa e affermazione di sé, forse spinto anche da un desiderio di rivalsa sociale, legato ai sospetti di frode di cui fu accusato (e poi assolto) il padre nel 1866. Ma dietro l’eccesso si nascondeva una personalità inquieta, fragile, tormentata. Pierre Loti “era ossessionato dalla morte – spiega Claude Stéfani, conservatore della Maison –. I decori della casa sono un modo per fermare il tempo, per sottrarsi al suo incedere”. Ogni stanza, ogni oggetto, serve a fissare un istante vissuto o immaginato. La casa-museo ha rischiato di scomparire. I restauri erano urgenti e complessi per via dei gravi problemi strutturali dovuti agli interventi audaci dello stesso Loti. Alcuni ambienti, perduti nel tempo, sono stati ricostruiti a partire da foto d’epoca. In altri casi si è scelta la via dell’“evocazione”. La dimora è stata restituita in uno stato più vicino possibile a come lo scrittore l’ha lasciata. La brillante carriera di ufficiale della Marina francese portò Pierre Loti in giro per il mondo, Turchia, Senegal, Marocco, Cina, Egitto, Tahiti, Siria, Indocina. I viaggi diventarono il cuore pulsante della sua opera letteraria, da Le Mariage de Loti (1880) e Pêcheur d’Islande (1886), a Les Désenchantées (1906), romanzi a metà strada tra narrativa e diario di bordo. Nutrirono anche la sua ossessione per la bellezza.
Più che un collezionista sistematico, fu un accumulatore estetico. Raccoglieva ciò che gli piaceva e lo intrigava, una quantità impressionante di oggetti, restaurati uno per uno per la riapertura al pubblico: ceramiche, tappeti, tessuti, spade, armature, reliquie sacre e oggetti esotici, a volte preziosi, a volte solo kitsch. Claude Stéfani lo definisce “un collezionista compulsivo”.
Restano delle ombre su tutte queste acquisizioni, talvolta avvenute in circostanze poco chiare, come nel caso emblematico del soffitto ajami del 700 in legno policromo, proveniente da un palazzo di Damasco, che Loti fece installare nella sua Moschea del secondo piano (e restaurato minuziosamente perché era minato dai tarli), o gli arredi imperiali decorati di draghi rossi riportati dalla Città Proibita nel 1900 per la Sala cinese. In Les Derniers jours de Pékin (1902) Loti raccontò la rivolta dei Boxer, descrivendo con macabra precisione i massacri perpetrati dalle truppe occidentali e i saccheggi, di cui lui stesso approfittò, tornando a Rochefort con un lauto bottino.