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 2025  giugno 13 Venerdì calendario

Perché le università delle élite stanno sfidando la Casa Bianca

In meno di cinque mesi l’Amministrazione Trump ha congelato cinque miliardi e trecento milioni di dollari a una mezza dozzina di prestigiose università private americane. Ha compiuto centinaia di arresti nei loro campus. E ha dichiarato guerra ai loro vertici, sospendendo molti dei diritti e privilegi di cui godono dalla fondazione.
L’obiettivo è piegarle a una nuova realtà dove, in cambio di sovvenzioni pubbliche e del diritto di reclutare studenti e docenti stranieri, gli atenei accettino che Washington stabilisca chi possano assumere, chi possano ammettere, che cosa non possano insegnare e come debbano regolare la vita nei loro campus.
Se nelle prime settimane dopo l’insediamento di Donald Trump tutte le università della Ivy League (le più ambite negli Usa) hanno cercato di negoziare con il nuovo governo, oggi per molte di loro un’intesa è diventata impossibile. E sono passate alle cause giudiziarie e alla denuncia aperta. A pagare le conseguenze più evidenti dello scontro è stata Harvard, che ha visto revocare dal governo federale perfino i vantaggi fiscali legati al suo status di istituzione non profit, che potrebbe costare all’istituzione di Cambridge (alle porte di Boston) quasi mezzo miliardo di dollari l’anno. N el mirino della Casa Bianca è finita anche la possibilità, finora tutelata, di accogliere studenti internazionali. Una decisione – contestata da Harvard in tribunale e temporaneamente sospesa da un giudice – che metterebbe a rischio lo status legale negli Stati Uniti di oltre 6.000 studenti stranieri. Il provvedimento, giustificato ufficialmente da motivi di “sicurezza nazionale”, segna un inaudito inasprimento del confronto tra la Casa Bianca e uno degli atenei più influenti al mondo, che accoglie da sempre molti fra i migliori cervelli del pianeta, ma l’amministrazione di Harvard non ne è stata sorpresa: la vede come l’ultima mossa in una strategia più ampia con cui Trump tenta da mesi di sottoporre l’istruzione superiore a un controllo politico senza precedenti.
«Nessun governo, a prescindere dal partito al potere, dovrebbe dettare cosa le università private possano insegnare, chi possano ammettere e assumere, e quali aree di studio e ricerca possano perseguire», ha scritto il presidente dell’ateneo, Alan Garber, in una lettera aperta all’Amministrazione. D a allora, la tensione è solo salita e Harvard è diventata l’epicentro di un braccio di ferro che sta scuotendo in profondità il mondo accademico americano. E non solo. Con i suoi 53,2 miliardi di patrimonio, quasi quattro secoli di storia e una rete di ex studenti che comprende otto presidenti Usa e quindici giudici della Corte Suprema, infatti, Harvard è uno degli snodi vitali di quel soft power che il politologo Joseph Nye ha descritto come il vero fondamento della potenza americana: la capacità di influenzare idee, tecnologia ed economia.
Proprio in nome di questo ruolo l’università ha rifiutato quelli che considera come diktat della Casa Bianca. Ha respinto l’ordine di sorvegliare le inclinazioni politiche del corpo studentesco, di punire chi è considerato “ostile ai valori americani” e di chiudere programmi di inclusione e diversità. «Harvard non è una semplice propagatrice dei valori americani – spiegano da Cambridge – è una delle istituzioni che quei valori li ha forgiati e li plasma nel tempo». Questa pretesa di autonomia potrebbe rappresentare una minaccia per un presidente intenzionato ad accentrare il potere e a delegittimare le voci critiche. A fianco di Harvard è stata presa di mira anche la Columbia University di New York. L’Amministrazione l’accusa di non aver abbastanza protetto gli studenti ebrei ma, secondo molti osservatori, le insinuazioni di antisemitismo sono state usate con disinvoltura politica per soffocare il dissenso, in particolare quello contro la guerra a Gaza. «Se ad Harvard importasse porre fine al flagello degli agitatori anti-americani, antisemiti e filo-terroristi presenti nel loro campus, non si troverebbe in questa situazione», ha dichiarato Abigail Jackson, portavoce della Casa Bianca.
In realtà, nella lista ufficiale delle richieste presentate dal governo alle università della Ivy League una sola riga riguarda l’antisemitismo. Le altre impongono riforme disciplinari, soppressione dei programmi per la diversità e il monitoraggio delle “ideologie”. La pressione si esercita anche con mezzi più diretti: negli ultimi mesi, l’Ice – la polizia dell’Immigrazione – ha arrestato e minacciato di espulsione diversi studenti e ricercatori stranieri negli atenei più noti e visibili. Tra questi Mahmoud Khalil, neolaureato di origine siriana della Columbia, detenuto da marzo nonostante sia in possesso di regolare residenza permanente.
P roprio alla Columbia, in una delle fasi più delicate della crisi, il decano del prestigioso master in giornalismo Jelani Cobb ha scelto di parlare apertamente agli studenti e il suo monito è diventato il simbolo della fragilità di un mondo accademico sotto attacco. «Nessuno può proteggervi – ha detto Cobb –. Il giornalismo comporta un certo elemento di rischio. E non possiamo proteggervi in un Paese che sembra tendere all’autoritarismo».
Parole dure, che – ha precisato in seguito ad Avvenire – ha pronunciato non per demoralizzare ma per responsabilizzare una nuova generazione di giornalisti. Cobb ha anche incoraggiato gli studenti internazionali a evitare di diffondere online commenti sul Medio Oriente, Ucraina o Gaza, e a essere consapevoli della realtà politica che li circonda.
«Ci troviamo in un momento in cui la libertà di stampa non è più necessariamente rispettata come dovrebbe essere. Il nostro compito è difenderla», spiega, ammettendo che «ciò che abbiamo fatto finora per proteggere questo diritto non è sufficiente, ma non abbiamo ancora fatto tutto quello che possiamo, la battaglia non è finita». S e le sfide per il mondo accademico sono gravi, infatti, per gli aspiranti giornalisti il clima odierno rappresenta anche l’opportunità di scoprire nuove forme di giornalismo investigativo che aggirino le misure restrittive del governo. «Per certi versi, questa è un’età d’oro per i media», aggiunge Cobb, che chiama alla solidarietà, alla cooperazione e alla resilienza: «Dobbiamo sopravvivere a questo momento insieme. Guardiamo a tutte le altre istituzioni e chiediamoci: come possiamo aiutarci a vicenda?». Dopo mesi di confronto, infatti, la convinzione dei vertici della Columbia come di Harvard è che la battaglia in corso non sia solo accademica ma esistenziale. Mentre la società civile americana ha appena cominciato a esprimere una protesta collettiva al pugno di ferro di Trump in California, ma in un modo disorganizzato e talvolta violento che l’Amministrazione repubblicana cerca di soffocare con la forza, sembra che sia toccato proprio alle élite universitarie – spesso accusate di isolamento – il compito di continuare a restare in prima linea, sul lungo termine.
Entrambe le istituzioni vedono infatti la loro lotta come la rivendicazione del ruolo di custodi di pensiero critico e pluralismo. Che, sono convinte, sarà difficile da reprimere.