Avvenire, 13 giugno 2025
Il conto mondiale delle armi nucleari: nel 2024 la spesa supera i 100 miliardi
Un ammontare di 100,2 miliardi di dollari, ovvero 1,9 miliardi a settimana, 274 milioni al giorno, 3.169 dollari al secondo: è quanto si è speso solo nel 2024 per le armi nucleari nei nove Paesi che detengono testate secondo il rapporto pubblicato oggi a cura della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (Ican). Una cifra, si legge, sufficiente a sfamare tutti i 345 milioni di persone che attualmente affrontano i livelli più gravi di fame a livello globale, inclusa la carestia, per quasi due anni, o ancora «a finanziare per 28 anni il bilancio totale delle Nazioni Unite», spiega ad Avvenire Susi Snyder, co-autrice del report con Alicia Sanders-Zakre e coordinatrice dei programmi di Ican. «Sono solo pochi esempi di tutte le iniziative alternative che ci darebbero davvero una sicurezza a lungo termine, come invece il nucleare non fa», aggiunge Snyder. La spesa per il mantenimento degli arsenali è aumentata dell’11% rispetto al 2023. Il tutto, sottolinea, per mantenere una deterrenza che si è già rivelata controproducente: «Ogni Paese che possiede armi nucleari è coinvolto in qualche conflitto ed è più probabile che lo sia, quindi non rendono quegli Stati più sicuri». Al di là dei costi umani che abbiamo già sperimentato a Hiroshima e Nagasaki nel 1945, «dove morirono oltre 200 mila persone e il tutto a causa di bombe minuscole rispetto a quelle odierne», Snyder ricorda che continuiamo a spendere sempre di più per qualcosa che «nel contesto del diritto internazionale non potremmo mai usare e va contro le regole del diritto bellico». Al momento al mondo ci sono circa 12mila testate nucleari, di cui quasi il 90% sono di Stati Uniti e Russia. Altri sette Paesi – Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord – le possiedono, mentre cinque Stati Nato ospitano le armi nucleari degli Usa: Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia. In Bielorussia potrebbero trovarsi invece alcune testate russe, ma su questo non c’è certezza. Anche nel 2024 gli Stati Uniti, con un investimento di 56,8 miliardi (5,3 miliardi in più dell’anno scorso), hanno speso più di tutti gli altri Stati dotati di armi nucleari messi insieme. La Cina si è confermata al secondo posto, con 12,5 miliardi di dollari spesi, e il Regno Unito al terzo, con 10,4 miliardi.
Ma di che armi parliamo e su cosa vengono distribuite le spese di preciso? «I tre principali tipi di missili diffusi sono i balistici intercontinentali che possono essere lanciati da terra, quelli progettati per i sottomarini e le bombe nucleari che possono essere sganciate dai caccia – spiega ancora Snyder –. Quei soldi vengono impiegati sia per acquistare nuove armi nucleari che per il mantenimento, la ristrutturazione o la riparazione di ciò che è già in circolazione». Nella spesa rientra anche qualsiasi cosa serva a trasportare le testate, costruire nuove basi e ammodernare quelle esistenti. «Oltre a quanto spendiamo, mi preoccupa anche che oggi si facciano discorsi più compiacenti verso queste armi, perché temo che prima o poi si arrivi al loro uso, intenzionale o accidentale. E come mostrano tutti i modelli al computer e le analisi, se qualcuno sganciasse una bomba scoppierebbe un conflitto nucleare», continua. Di queste armi conosciamo anche le conseguenze a lungo termine: «Diffondono radiazioni ionizzanti che hanno complicanze soprattutto sui più piccoli, e in particolare sulle bimbe che, come è stato osservato, hanno poi maggiori probabilità di sviluppare il cancro». Un discernimento che ha portato «metà delle nazioni del mondo a firmare, ratificare o aderire al Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw), rinunciando a sviluppare il proprio arsenale o a installare armi nucleari di un altro Paese sul proprio territorio e impegnandosi a lavorare per la loro eliminazione. Questo mi dà speranza che sia l’ultima volta che vediamo una crescita di spesa per un’idea così obsoleta». Meno incoraggiante è invece la mancanza di trasparenza su quanto spendono per il mantenimento dell’arsenale i Paesi europei che ospitano le armi americane. Il report ricorda per esempio che Belgio, Germania, Italia e Paesi Bassi sono in procinto di acquisire caccia F-35 certificati anche per il lancio di bombe nucleari B61: in particolare il nostro Paese dovrebbe spendere altri 7 miliardi di euro per 25 F-35. Sappiamo poi che i membri della Nato condividono l’onere dei costi destinati alle misure di sicurezza e agli impianti di stoccaggio nucleare e sono responsabili della fornitura di personale per la sorveglianza del sito. Eppure, «non vogliono dire ai loro cittadini quanto gli costa tutto questo e penso non sia un bene per la democrazia perché le persone dovrebbero sapere dove vanno a finire i soldi delle loro tasse». Nel frattempo, si legge ancora nel report, sono invece «le poche decine di aziende private che producono armi nucleari, e che hanno guadagnato 43,5 miliardi di dollari per questo lavoro l’anno scorso, ad avere voce», per esempio, pagando «i lobbisti in Francia e negli Usa oltre 128 milioni di dollari per rappresentarli».
Anche l’Italia – con le basi aeree di Aviano e Ghedi – ha dunque delle spese per il mantenimento degli arsenali. La Rete Italiana Pace e Disarmo, che fa parte della campagna Ican, stima che «il “costo nucleare” collegato sia di circa 500 milioni di euro all’anno», precisa Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete. «Stiamo ulteriormente indagando i costi, ma è chiaro che siccome “ospitiamo” le testate americane dobbiamo adattare le nostre basi e i nostri aerei di conseguenza. Inoltre, l’aumento della spesa a livello globale evidenzia che è in corso un continuo ammodernamento degli arsenali, con nuove testate, lanciatori o entrambi». Attualmente, secondo il report, l’Italia ospita almeno 35 armi nucleari. «Il nostro Paese non le gestisce direttamente, ma mette i soldi per contribuire al loro mantenimento attraverso la gestione delle basi e l’addestramento dei piloti italiani, pronti a sganciare queste armi di distruzione di massa», puntualizza Vignarca. L’Italia continua dunque a non essere un Paese nucleare in senso stretto, «anche se il solo fatto di ospitare testate per noi della Rete si dovrebbe considerare fuori dal Trattato di non proliferazione». Del resto, come sottolinea ancora il report, anche gli italiani si opporrebbero al dispiegamento di armi nucleari statunitensi sul proprio territorio e in un sondaggio dello scorso aprile il 63% della popolazione si è detto contrario. L’unica scelta seria, sostiene infine Vignarca d’accordo con Snyder, «sarebbe l’eliminazione totale di tutte le armi nucleari, così da cancellare definitivamente questo rischio per l’intera umanità».