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 2025  giugno 12 Giovedì calendario

Intervista a Davide Scabin

Quasi sessant’anni, temperamento incendiario un po’ mitigato – dice lui, noi però non sappiamo se credergli – Davide Scabin, tra i cuochi piemontesi più celebri e creativi di sempre, non le manda certo a dire. Per l’appunto. Mentre al ristorante Carignano fino alla notte di Halloween saranno in carta 13 dei suoi piatti storici – dal Cyber Egg alla Fassona impanata, dal Rognone al gin al Soufflè di maccheroni —, gli chiediamo di fare un bilancio della sua vita. «Ho l’indole da bombarolo: sono sempre entrato a gamba tesa nelle cose. Sono stato molto rigoroso, è stato faticoso lavorare con me. Oggi, però, il tempo mi ha dato un po’ di saggezza: preferisco posizionare delle microcariche». La prima? «La cucina italiana oggi è ferma».
Ma come ferma?
«Vedi qualche genio gastronomico in giro? Questo è un momento di iperstagnazione, di stallo. Non c’è fermento. Non ci sono fratture che fanno nascere il nuovo. Per dire, nella frattura in Francia tra chef creativi e tradizionalisti si infilò la Spagna la cui cucina ha poi dominato per molto tempo. Tutti sifonavano tutto, ma sono stati anni contagiosi. C’era senso di movimento. Oggi no. In compenso molti copiano».
Anche lei?
«Beh, un giorno navigando su YouTube, capito per caso su un video girato da un cliente al ristorante Disfrutar di Barcellona. Vedo che gli presentano un’insalata in cui foglie e germogli vanno mangiati in sequenza. Eh, scusate, ma quella è la mia Check salad, pari pari, che è del 2008. Ho visto, invece, che Franco Pepe ha presentato un piatto, Ricordo di uno sbaglio, che a me sembra la mia Zuppizza, del 2004: c’è una crema di mozzarella, un purè di pomodoro, un purè di basilico e una fetta di pane in mezzo. Può darsi che Franco non la conosca, ci sta. Però mi dispiace che nessuno l’abbia informato. Alla fine subisco il paradosso dell’innovatore».
E cioè?
«Chi è troppo avanti finisce per stare nell’ombra, prendendosi meno meriti di chi parte dopo. Diciotto anni fa proposi il Tataky di melanzane, fu accolto dal gelo perché allora andavano solo le sferificazioni. Poi arrivò Redzepi e si tornò alla naturalizzazione. Solo che io ero partito prima».
Facciamo un passo indietro. Come ha cominciato?
«Vengo da una famiglia umile. Mia mamma era capoarea in una piccola industria dolciaria, mio papà camionista. Al mare non mi hanno mai portato tante volte. Sono stato allevato con rigore come un Navy Seal: l’affetto c’era ma era quello sabaudo. Da bambino sapevo attaccare i bottoni, lavare, pagare le bollette. A 16 anni facevo già il capopartita in Sardegna. E in brigata sono sempre stato quello con la toque dritta: la sapevo inamidare e stirare alla perfezione».
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Il sogno di ragazzo?
«Volevo fare l’hacker. Ma fu mia mamma a spingermi a fare l’alberghiero e a diventare cuoco: aveva paura che studiando informatica non avrei trovato lavoro. Non so ancora se questa è stata una colpa o se la devo ringraziare».
Parliamo del suo Combal.zero, considerato un laboratorio di idee, uno dei ristoranti più creativi d’Italia.
«È stato per me casa. Niente mi potrà mai più emozionare come quel posto. Oggi mi manca tutto quello che ho costruito, quell’energia incredibile. Se vincessi al Superenalotto e avessi 30 anni di tempo a disposizione, ricostruirei subito un altro Combal. Sogno di riunire quel branco, anche quelli che negli anni si sono persi per strada o che ho cacciato via, vorrei invecchiare con loro, ammesso che loro vogliano».
Nel 2015 la Michelin tolse al Combal.zero la seconda stella, ci fu un’ondata di indignazione. Come visse quel momento?
«Fu una sportellata in faccia. Il mio vice Beppe Rambaldi andò quasi in depressione. Anche Max Raugi, che oggi dirige la sala di Cannavacciuolo. Erano tutti convinti di essere sotto osservazione per la terza stella, invece ci declassarono senza mai spiegare il motivo. In quel periodo stavo aprendo a Manhattan, ero spesso lontano. Penso che abbiano voluto dire: vediamo se al Combal ci sono distrazioni. Se gli ispettori hanno trovato errori tecnici, va bene. Però chiedo: qual è il metodo applicato? Diciamolo: se la Michelin oggi vuole declassare uno qualunque dei ristoranti tristellati, un motivo lo trova sempre. Proprio perché la Rossa ha una grande storia alle spalle e credo nel suo valore, sarebbe giusto cominciare a fare un discorso di trasparenza. All’epoca cercai di reggere il colpo per sostenere mentalmente i ragazzi. La mia reazione? Alzai i prezzi. E il ristorante andò sold out per sei mesi».
Perché ha chiuso definitivamente nel 2021?
«Come tutte le aziende di alto livello, senza un investitore si hanno difficoltà economiche. Non è un segreto. Io ero riuscito a sostenere il ristorante in modo personale ma poi, terminate le consulenze importanti a causa della pandemia, ho dovuto chiudere. Meglio così: allora seguivo troppe cose, se non mi fossi fermato mi sarebbe venuto un infarto».
Raccontano di lei che sia un po’ rockstar: beve, fuma, fa debiti, prende multe in stato di ebbrezza, è un donnaiolo. Che cosa c’è di vero?
«Niente di falso. E allora? Sono sempre stato un uomo un po’ primordiale. Oggi però mi sono evoluto: a un certo punto bisogna imparare a scendere dall’albero. Ho smesso di bere per esempio. E faccio il digiuno intermittente: 20/4. Cioè sto 20 ore senza mangiare. In realtà bisognerebbe saltare durante le ore notturne ma io me ne frego del ritmo circadiano: digiuno di giorno e mangio alle due di notte al termine del servizio. Per esempio, un’insalata di ottimo tonno con cannellini e cipollotto di Tropea. Ogni tanto faccio anche il digiuno vero: una volta sono arrivato fino a 5 giorni. Entri in un’altra dimensione, il cervello va ai 500 all’ora. Il problema restano le sigarette: ne fumo ancora due pacchetti al giorno».
E con le donne?
«L’indole da sciupafemmine resta ma oggi sto con una persona che mi regala il senso di infinito. Nel 2015 avevo detto basta con le donne, poi è arrivata lei che mi ha ridato profondità e fiducia. Il matrimonio? Sono già stato sposato tanto tempo fa: durò solo 8 mesi, lei come arrivò così se ne andò, dicendo: mi sono sbagliata. Risposarmi? Perché no. In fondo il matrimonio è un impegno nei confronti della società. Il momento dopo il sì è una bella sensazione».
Si dice che sia uomo di destra.
«In realtà sono l’unico vero comunista che conosco che non ha mai votato a sinistra. Nel 2005 presentai IT, una carta d’identità del gusto: un kit di autoanalisi per registrare i propri punti di gradevolezza di dolce, acido, amaro, piccante e sapido. Da applicare non nel mondo del lusso ma per esempio nelle grandi catene di food. Cioè con questo chip puoi ordinare un piatto tarato sul tuo gusto. Non è questo un concetto comunista. L’evoluzione non passa per le élite ma attraverso l’applicazione dell’innovazione per tutti. Come nel design. Perché amo Bruno Munari? Perché ha inventato la bacinella del bucato in plastica, leggera, per non far spaccare la schiena. Certo, faccio piatti che non tutti si possono permettere, però prima cerco di insegnare qualcosa di utile a tutti. Per esempio, come salare un piatto senza affidarsi al caso, con lo Scabin Salt System. Mi sembra una cosa molto di sinistra».
A settembre compirà 60 anni. Rimpianti?
«Non mi sono mai affidato a una persona di marketing che valorizzasse l’immagine mia e del ristorante, avrei dovuto. Poi, fino ai 33 anni ho sofferto per non aver fatto l’università. Mi sentivo di serie b. Il complesso di inferiorità l’ho alla fine perso ma oggi, potendo, mi iscriverei a una facoltà scientifica. Che mi possa aiutare a parlare con Musk».
Con Elon Musk?
«Sì, gli spiegherei che ho la soluzione al suo problema: andare su Marte. Il tema vero non sono i motori ma il food. E io nel 2013 ho creato alcuni piatti che sono stati spediti nello spazio, a bordo della navicella Soyuz con Luca Parmitano».
Il piatto che la rappresenta di più oggi?
«Nasco saucier. Il mio core business sono i brodi. Oggi penso di aver raggiunto un livello alto. Ma non voglio arrivare al 10: poi la corsa è finita e dopo cosa fai? Io invece voglio continuare a bruciare padelle per almeno altri venti anni».