corriere.it, 11 giugno 2025
Prato, la «guerra delle grucce»: scioperi, pestaggi e bombe. Ma alla fine gli schiavi del tessile vincono
«Se otto ore vi sembran poche» cantavano le mondine delle risaie piemontesi per reclamare un limite alla fatica quotidiana del lavoro. Correva l’anno 1906. Centodiciannove anni (119!) dopo la protesta delle mondine, un gruppo di «schiavi del tessile» nel distretto di Prato ha strappato il diritto alle 8 ore di lavoro. E quel traguardo è stato raggiunto a costo di scioperi, picchetti, blocchi stradali. Anche di pestaggi e attentati a suon di bombe. Pare di rivivere l’alba di sangue e violenze della rivoluzione industriale e invece siamo nell’Italia del terzo millennio. L’hanno battezzata la «guerra delle grucce» di Prato e questa è la sua storia.
La storia ha una sua svolta fresca d’inchiostro, risale al primo weekend di giugno: a partire dal venerdì un’ondata di scioperi investe il macrolotto di Prato, un formicaio umano impenetrabile formato da aziende di proprietà cinese e manodopera pakistana e bengalese dove si lavora giorno e notte per produrre capi d’abbigliamento low cost: gli operai delle aziende già sindacalizzate incrociano le braccia, escono dai capannoni, percorrono le strade dell’area industriale urlando slogan ai megafoni, distribuendo volantini, chiamando i colleghi delle altre microimprese privi di tutele a unirsi alla protesta, a bloccare produzione e cancelli. Funziona. Nel muro dell’omertà si apre una breccia e nel giro di 72 ore i titolari di 27 aziende sottoscrivono accordi con il sindacato che finalmente introducono in quella terra di nessuno elementari regole di dignità. A partire dalle otto ore di lavoro per cinque giorni. Laddove fino a ieri la regola prevedeva 7 giorni no-stop per 12 ore quotidiane.
Un miracolo? «Nessun miracolo: è il frutto di una mobilitazione e una lotta durate almeno sette anni» dichiara Luca Toscano, segretario del Sudd-Cobas di Prato, protagonista della battaglia sindacale per liberare gli «schiavi del tessile». Che prosegue: «Fino a poco tempo fa quando scattavano le proteste ci vedevamo piovere addosso le denunce della polizia. Oggi i rapporti di forza sono cambiati, le aziende temono l’arrivo del sindacato e fanno concessioni».
Siamo solo all’inizio: alle 27 aziende che hanno sottoscritto gli accordi a giugno ne vanno aggiunte altre 15 che hanno strappato a ottobre il diritto alle 8 ore di lavoro. Ma il distretto tessile e moda di Prato ospita ben 7.000 imprese, in massima parte cinesi, molte delle quali non superano i 15 addetti: qui si annidano sfruttamento e illegalità. «Ma capita che un unico proprietario controlli più fabbriche. Dunque solo all’apparenza la filiera è dispersa in mille rivoli» precisa Luca Toscano. Filature, confezioni, tintorie, logistica: tutte le fasi del pronto moda sono racchiuse al di là della muraglia cinese di Prato, che vale 2 miliardi all’anno di export e il 3% dell’intera produzione tessile della Ue. Ma lì dentro – citiamo cifre del procuratore capo di Prato Luca Tescaroli – si muovono circa 15.000 lavoratori «fantasma» e a giugno 2024 erano aperti aperti 885 fascicoli per violazioni alle norme sul lavoro.
La «guerra delle grucce» è innanzitutto una feroce concorrenza tra aziende per inondare il mercato dell’abbigliamento a costi irrisori e che vede nello sfruttamento della manodopera in nero uno dei suoi pilastri. Ogni atto teso a scardinare questo ordine di cose si paga con la violenza. La notte del 9 ottobre scorso all’esterno della tintoria Lin Weidong è in atto un presidio sindacale. Dall’oscurità sbuca un gruppo di incappucciati, piombano sulle quattro persone del presidio e li colpiscono con delle spranghe; poi distruggono il gazebo sindacale e prima di andarsene pronunciano con accento italiano: «La prossima volta veniamo con le pistole». Una spedizione punitiva in stile mafioso. Questa è l’aria che tira e quello non è stato un episodio isolato.
La primavera e l’estate del 2024 sono state contrassegnate da una cronologia di atti intimidatori. A luglio la Shun Da, azienda che si occupa di spedizioni, viene distrutta da un incendio doloso. Poche settimane prima allo stesso indirizzo erano stati depositati pacchi bomba fatti esplodere a distanza. Ad aprile un commando aveva fatto irruzione in un bar accoltellando un imprenditore cinese. Un precedente pestaggio di alcuni operai pachistani era sfociato nell’emissione di quattro misure cautelari da parte della procura di Prato: due «caporali» connazionali delle vittime e due imprenditori cinesi i destinatari. A ottobre, infine, va a fuoco l’auto del titolare di un’impresa: accanto al rogo viene fatta trovare una bara.
Dentro questo clima si agitano le proteste che stanno strappando gli schiavi del tessile dall’oscurità. La regola è spietata e la sintetizza ancora una volta il segretario del Sudd Cobas: «Scioperi, vinci o sei licenziato». La strategia degli stop in simultanea, dell’alleanza tra i sommersi (chi lavora in fabbriche non sindacalizzate) e i salvati (quelli che invece godono già dei diritti contrattuali) ha segnato la svolta: «La manodopera era assunta con finti part time o in nero, la regola era quella delle 12 ore giornaliere per 7 giorni. Gli accordi prevedono l’applicazione dei contratti anche per le aziende artigianali con tutele in fatto di salario, orario di lavoro malattia. Tutte conquiste prima inesistenti».
Nonostante gli accordi sindacali sottoscritti la «guerra delle grucce» resta lontana dalla sua conclusione, anche perché a Prato funziona un sistema radicato e articolato. L’ha descritto con lucidità il 25 gennaio scorso proprio il procuratore Luca Tescaroli ascoltato in Senato dalla commissione d’inchiesta sul caporalato: «Siamo di fronte a una struttura criminale integrata – parole del magistrato – dove lo sfruttamento del lavoro è centrale e nevralgico». La catena comincia addirittura con l’approvvigionamento delle materie prime: «L’ingresso avviene dai porti del Pireo o della Slovenia, la merce passa poi in Ungheria grazie a società fantasma e da qui arriva in Italia. Vengono evase Iva e imposte doganali dunque il primo danno lo subisce il fisco».
La seconda fase è quella della produzione e qui si approda a Prato: «Questa – ha riferito Tescaroli ai commissari - avviene grazie a imprese individuali cosiddette “apri e chiudi”. Quando l’impresa va in perdita, gli attivi vengono riversati in una nuova società intestate a “teste di legno”. Con un ulteriore danno ancora una volta al fisco e falsando la concorrenza». I profitti vengono riportati in Cina grazie a «spalloni», a money transfer. Pechino ha interesse a incassare flussi di valuta pregiata, in euro «e anche per questo la collaborazione delle autorità cinesi fino a oggi è stata insufficiente». C’è poi il capitolo delle complicità locali: «Quella cinese è una comunità chiusa ma si avvale di relazioni con commercialisti e consulenti locali che forniscono supporto nella gestione delle società».
Ma qualche novità, come visto, si fa strada: «Lo Stato c’è e reagisce – ha dichiarato Tescaroli – in questi mesi una serie di episodi ha penetrato il muro dell’omertà, abbiamo avuto significative collaborazioni da parte di cittadini cinesi e pachistani sfruttati. Purtroppo la normativa attuale sui collaboratori e testimoni di giustizia consente di concedere protezione solo a chi è cittadino italiano». E dunque sì, la strada da percorrere resta ancora tanta.