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 2025  giugno 11 Mercoledì calendario

Lavoro, il 50% nella ristorazione è precario. Cosa sono i «contratti pirata», con stipendi più bassi di 7 mila euro

In un’Italia che si dibatte tra le pieghe di un’economia sempre più fragile, il lavoro povero continua a crescere. Le storie di lavoratori e lavoratrici che lottano ogni giorno per un salario che spesso non basta a coprire le necessità di base nono sono più, da tempo, eccezioni. Nel settore dei servizi, dove lavorano 16,7 milioni di persone (il 69,9% dei lavoratori censiti in Italia) e dove la maggioranza è donna (51,7%), i contratti precari sono il 33%, una condizione che raggiunge quasi il 50% nel settore della ristorazione. Una deriva che sembra non riuscire più a garantire neppure le promesse di una vita dignitosa. Il tasso di copertura contrattuale nel terziario, inoltre, è sotto l’80%, un dato che evidenzia una «zona grigia» che comprende quasi 2 milioni di lavoratori per i quali non si sa nemmeno quale sia il Ccnl del terziario che gli è stato applicato e i cui diritti sono sospesi, privi di una protezione legale adeguata.
Tra il 2015 e il 2023 i contratti a termine cresciuti del 70%
La Uiltucs – la Uil del terziario, che sottoscrive 28 Ccnl applicati a più di 6 milioni di lavoratori del settore – ha voluto far emergere questi dati in una tre giorni culminata l’11 giugno, a Firenze, con l’assemblea nazionale alla quale hanno partecipato oltre 1.200 delegati da tutta Italia. Le cifre emerse sono impietose: nel 2023 (ultimi dati disponibili) oltre 5 milioni di persone erano coinvolte in contratti a termine (a fronte del 13,5% nell’industria). E l’incidenza del lavoro precario nei servizi assume dimensioni più ampie tra le lavoratrici, dove raggiunge il 34,7% (31,2% tra gli uomini), tra i giovani (46,7% tra gli under 35) e nelle regioni del Sud, dove gli atipici rappresentano il 38,5% degli occupati totali, a fronte del 32,1% al Centro e del 30,7% al Nord. La quota dei lavoratori «atipici» raggiunge valori addirittura maggioritari nelle attività di alloggio (72,7%), attestandosi al 49,7% nella ristorazione, al 34,2%% nei servizi di vigilanza, al 22,1% nel commercio al dettaglio e al valore minimo del 13,4% nel commercio all’ingrosso.
Tra il 2015 e il 2023, la crescita degli occupati complessivamente osservata (+24,3%) è trainata quasi esclusivamente dai lavoratori a termine (+70,2%) e dagli stagionali (+78,8%), a fronte di un esiguo contributo (+9,5%) dei lavoratori stabili. Anche la prospettiva di genere conferma questi risultati: le donne precarie crescono nello stesso periodo del 75,3% a fronte del +7,9% delle lavoratrici stabili (+67,3% e +11,1% tra i maschi).
Il nodo dei salari
Ma non è solo il numero dei contratti a termine a far riflettere. Il vero nodo da sciogliere è quello dei salari. Il valore reale delle retribuzioni nel terziario è crollato del 9% rispetto al 2015, attestandosi a una media annua nel 2023 pari a 21.021 euro annui, registrano la più elevata perdita del potere d’acquisto al netto dell’inflazione. A registrare la flessione più importante delle retribuzioni «reali» sono i servizi di vigilanza (-16,9%), la ristorazione (-9,5%), il commercio al dettaglio (-8,9%) e i servizi di alloggio (-7,9%). Nella ristorazione, i lavoratori stabili guadagnano solo 10 mila euro lordi circa annui, quelli a termine si fermano a 5.500 euro (va un po’ meglio agli stagionali: 7.100 euro). La media dei part-time involontari nel settore dei servizi (600 mila persone) non arriva nemmeno a 12 mila euro lordi l’anno. È un divario che si accentua col genere: le precarie del terziario hanno una retribuzione media che si ferma a 9.212 euro lordi all’anno contro i 10.785 euro degli uomini. Tutto questo, in molti casi, si traduce in un’esistenza di stenti, con retribuzioni che non permettono di raggiungere nemmeno la soglia minima di sussistenza.
I contratti pirata
A questo quadro fosco si aggiunge un’altra piaga: quella dei contratti pirata. Lavoratori con la stessa mansione, dunque nelle stesse condizioni, vengono retribuiti in modo molto diverso, a causa di contratti fuori legge o firmati da sigle sindacali non riconosciute. La disparità salariale tra il lavoratore assunto con un contratto pirata e uno assunto con Ccnl sottoscritto dalla Uiltucs e dagli altri sindacati arriva a superare anche i 7 mila euro in un anno.
Le storie
Ma, come sempre, dietro alla freddezza statistica dei numeri si celano le storie vere di chi questo «lavoro povero» lo vive sulla propria pelle e che sono state raccontate durante l’incontro di Firenze. Come quella di Gloria, che per mille euro al mese si divide come portiere tra più turni e luoghi di lavoro; o di Cristina, madre single che fatica a sfamare i suoi figli con meno di 700 euro al mese. Mirna, intrappolata per anni in un part-time involontario, con un salario che non basta a coprire le necessità più elementari di sua figlia. Come Luana, madre di tre figli, che nonostante coordini la mesa dell’ospedale di Mestre, è inquadrata come semplice addetta e, a fine mese, tolto l’affitto, non le restano che 600 euro. O come Sebastiano, rider costretto a lavorare anche 60 ore settimanale. Un po’ di luce, invece, l’ha intravista Giuseppe, addetto alla sicurezza che, dopo tre appalti, passando dal contratto Ugl e poi Cisal, è riuscito ad avere il Ccnl Vigilanza privata siglato dai sindacati maggiormente rappresentativi.
«Proposta 25-50-100»
 In questo contesto, la Uiltucs ha lanciato una proposta ambiziosa: la «Proposta 25-50-100», che mira a contrastare la povertà salariale con una serie di richieste concrete: l’incremento del part-time minimo a 25 ore, una paga maggiorata del 50% per le ore domenicali e del 100% per quelle nei giorni festivi. Ma la vera sfida è contro la pirateria contrattuale, con l’obbligo per le aziende di dichiarare esplicitamente quale contratto si applica, mettendo fine all’incertezza che genera abusi.
La situazione attuale del «lavoro precario» è una macchia indelebile sulla faccia di una società che si definisce moderna. Come ha detto Paolo Andreani, segretario generale della Uiltucs, «il lavoro grigio e precario ruba i sogni di tante persone, per gli orari impossibili e le poche ore di lavoro che condannano 600 mila part-time involontari, in prevalenza giovani e donne, alla povertà salariale e previdenziale». Il mercato del lavoro italiano, come ha sottolineato Samantha Merlo, segretaria nazionale della Uiltucs, «è disordinato e lento». La povertà «non può essere considerata un destino, una responsabilità individuale», ma è una condizione che si origina da un sistema che non funziona e che non offre risposte concrete.