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 2025  giugno 11 Mercoledì calendario

Intervista a Tobia Scarpa

Indro Montanelli era contento di non avere figli: lo considerava il modo più sicuro per impedire che la propria firma si svalutasse. Invece il mito di Carlo Scarpa, liturgista del cemento, si è perpetuato nel figlio Tobia, 90 anni, che non solo ha eguagliato il padre in fatto di architettura e design, ma ha battuto persino Leonardo da Vinci nella scrittura speculare. Infatti, verga sotto i miei occhi una lunga dedica impugnando contemporaneamente due penne: mentre metà riga scorre da sinistra verso destra, nell’altra metà le stesse parole escono da destra verso sinistra, però con le lettere capovolte: «Sono nato così». Un testo diviso in due, come lo schienale della sedia Africa, che realizzò mezzo secolo fa per Maxalto: «Non provoca lombalgia, perché dà respiro alla colonna vertebrale». Il Moma di New York espone cinque suoi pezzi d’arredamento: Bowl (1960), Chair (1966), Ciprea (1967) e Ariette (1973). «Mai visti». 
Al Louvre la sedia Libertà. 
«Ah sì? Non saprei. G’ho do man, le ho sempre usate». 
Per la poltrona Soriana, le lampade Papillona e Biagio, i divani Bastiano e Coronado. 
«Lo devo a chi mi chiese di progettarli: Cassina, Tacchini, B&B Italia, Flos, Gavina, Knoll, Unifor, Meritalia». 
A 25 anni era designer nella vetreria Venini a Murano. 
«Ci aveva lavorato mio padre. Mi rubavano i notes su cui appuntavo le formule chimiche dei colori che evitavano alle murrine di sfaldarsi». 
Oggi sono made in China. 
«I veneziani non sanno reagire, sono arrabbiati e allora incolpano i cinesi. La verità è che non hanno né il prodotto né il posto dove venderlo». 
Con la prima moglie Afra, scomparsa nel 2011, progettò gli stabilimenti Benetton. 
«Siamo coetanei. Io lo chiamo “signor Luciano”, lui “architetto”. È difficile lavorare per un amico. Meglio farlo per un committente». 
Ha restaurato le Gallerie dell’Accademia a Venezia. 
«La scuola d’arte al pianoterra fu spostata altrove, per salvaguardare la soprastante pinacoteca storica. Gli allievi usavano materiali infiammabili e un incendio aveva appena devastato la Fenice». 
Il cognome Scarpa le pesa? 
«Basta non pensarci. Era corto quando cominciai. Gli altri me lo hanno allungato». 
Che ricorda di suo padre? 
«I libri. Ingombravano la nostra casa, senza carattere, in Rio Marin. Li impilava persino sotto le finestre. Li ho regalati alla Fondazione Benetton. Tutti, inclusi i miei». 
Ricorda solo questo? 
«Anche una pedatona nel sedere con cui mi fece volare in una calle di Venezia. Non so perché. Ero piccolo». 
Me lo descriva come uomo. 
«Era bruttissimo, non se ne trovava un altro uguale. E maniacale nella cura di sé. Ci teneva ad apparire inappuntabile». 
Tutto qua? 
«Era troppo lontano da me. Combaciavamo solo nel lavoro. Il resto non esisteva». 
Che cosa lo rendeva felice? 
«Quando conseguiva il risultato che si era prefisso, lo vedevo sereno, più che felice. In quei momenti strepitosi diventava disponibile a giocare con le parole». 
Che cosa non sopportava? 
«La stupidità. Perché è uno spreco di energia che incide sulla qualità e mio padre detestava i lavori fatti male». 
Aveva amici? 
«Con lo scultore Arturo Martini ci fu affetto reciproco. Poi il pittore Emilio Vedova e il poeta Giacomo Noventa. Sapeva sedurre le persone. Un rufianón, come diciamo in Veneto». 
Era un docente severo? 
«Non credo. Solo implacabile con i cretini. E anche cattivo, capace di cose orride». 
Avevate lo studio insieme? 
«Mai lavorato con papà. Non volevo avere obblighi». 
Lo avrà contraddetto con qualche progetto, presumo. 
«Di sicuro, però mai intenzionalmente. E comunque gli ho lasciato la supremazia». 
C’è un mistero nell’architettura di Carlo Scarpa? 
«Quello che mi copiava. Lui veniva dall’antichità, io dal futuro. Se una mia cosa gli piaceva, se la cuccava». 
E lei non protestava? 
«All’inizio diventavo una bestia. Dovevo contenermi». 
Un rapporto non idilliaco. 
«Fra noi c’era amore assoluto. Era più curioso di me». 
V’incontravate spesso? 
«Neppure una volta l’anno. Mi mancava il tempo. Avere idee è difficile, devi curarle». 
Suo padre morì il 28 novembre 1978 a Sendai, in Giappone, cadendo da una scalinata in cemento. 
«Scivolò. Indossava scarpe belle, ma da imbecille». 
È vero che nella tomba progettata per la famiglia Brion, a San Vito di Altivole, venne seppellito in piedi? Come Gabriele D’Annunzio, sembra. «No, però è vero che avrebbe voluto essere inumato in posizione verticale, lo raccontava a tutti. Sognava una morte eroica». 
Lei ha avuto tre figli. Sebastiano e Nicolò li ha persi in due distinti incidenti stradali. Com’è riuscito a superare un dolore tanto atroce? «Dimenticando. Non c’è alternativa, lo dico anche da solutore dei problemi che incontro nel mio lavoro. Mi resta Carlotta, la primogenita». (Interviene la seconda moglie, Valeria Salvador, sposata nel 2014: «Sebastiano era diciottenne quando, con il motorino, morì in uno scontro. A Nicolò, nato l’anno seguente, fu proibito di usarlo. Purtroppo un amico glielo prestò e con quello, a 17 anni, si schiantò. Fu il fuso maledetto della Bella addormentata. Io conobbi Tobia dopo la seconda tragedia. Era una persona nuda. Ciò che ammiro in lui è il fatto di non aver mai odiato. Non ha voluto sapere nulla dei responsabili dei due incidenti. Ha sorseggiato il dolore fino all’ultima goccia»). «Ti ringrazio, però basta. Il dolore non va via. Resta lì». 
Ama il lavoro manuale con i materiali. Quale preferisce? 
«Quello di cui ho bisogno di volta in volta». 
Mario Rigoni Stern raccontò a Marco Paolini che una catasta di legno ben fatta, ben allineata, è bella. 
«Condivido in toto questo discorso. In un foglio di carta scritto c’è dentro tutto il pensiero. Va guardata con rispetto questa roba qua». 
Ore di lavoro in un giorno? 
«Neanche una. Non è lavoro, ma gioia. Con bestemmie e senza bestemmie. Smetto solo quando dormo». 
Di notte prende appunti? 
«Ci provai. Non funziona». 
Non va in pensione? 
«Non saprei che fare, se smettessi di progettare». 
Che cosa le piacerebbe che esponessero dentro un futuro museo Tobia Scarpa? 
«Non voglio niente, dopo. Devono bruciare tutto, quando sarò morto. Al massimo possono tenere qualcosa che nessuno riesca a capire». 
È mai stato in cattedra? 
«Certo, tenevo i corsi di laurea in design allo Iuav di Venezia. Ma non era il mio mestiere. Mio padre sì che era perfetto in quel ruolo. Io sono un impedito». 
Se dovesse insegnare un solo principio a un giovane architetto, quale sarebbe? 
«Un sapiente che pretenda di affiancare l’allievo per eternare il proprio ricordo è un bastardo maledetto, bisogna dargli fuoco. Le cose umane svaniscono, è follia pensare che restino per sempre». 
Feliciano Benvenuti, che fu presidente di Palazzo Grassi e della Fondazione Cini, affermava: «El veneto el vól savér far prima de far savér».
«Mi riconosco abbastanza. Ma sono talmente pigro che mi si rompe tuto a tochéti».