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 2025  giugno 10 Martedì calendario

Le lettere tra Dino Campana e Sibilla Aleramo: «I nostri corpi sulle zolle dure, le spighe sopra la fronte, m’hai portata lontano

«Venuto l’inverno andai a Firenze al Lacerba a trovare Papini che conoscevo di nome. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspettava ma era molto molto bene e m’invitò alle giubbe rosse per la sera. Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo. [..] Per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, ché l’avrebbe stampato. Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dormivo all’asilo notturno ed era il giorno che loro facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto era passato nelle mani di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi di riscriverlo a memoria, giurando di vendicarmi se avevo vita. [..]..contro me tutto era lecito. I poliziotti mi seguivano e mi facevano insultare dovunque andavo e Papini e Soffici si fecero complici degli assassini mentre io pieno di fiducia gli abbandonavo in mano quello che era la sola giustificazione della mia esistenza». 
Chi scrive, nell’inverno del 1913, è Dino Campana (nella foto), lamentando l’indifferenza crudele con cui il suo manoscritto «Il più lungo giorno» è stato snobbato e smarrito (sarà ritrovato nel 1971). Lo riscrive, a memoria, cerca un altro editore, lo trova e nel 1914 ( a sue spese) esce, nell’edizione Ravagli, «I canti orfici». 

Dino è toscano, di Marradi, è nato nel 1885. È il figlio di un maestro elementare, va a scuola a Faenza e poi a Torino. Si iscrive alla Facoltà di Chimica che non concluderà mai per varie difficoltà. La vera insidia però è dentro: intorno al 1900 inizia a dare segni di squilibrio mentale, alterna momenti di lucidità e accessi di furore, vagabonda, viene arrestato più volte, internato in manicomio, la prima volta a Imola, nel 1905. 
Ma «I canti orfici» sono il suo riscatto: l’intelligenza dell’epoca si accorge di lui e della «cattedrale visionaria» che popola la sua mente. E di lui si accorge anche Sibilla Aleramo, al secolo Marta Felicina Faccio, nata ad Alessandria nel 1876, in fuga da una famiglia segnata dal tentativo di suicidio della madre e poi da un matrimonio impostole (con l’uomo che l’ha stuprata) e dal quale scappa, perdendo per sempre la custodia del figlio. 
Quando legge «I canti orfici» è già famosa per aver pubblicato un romanzo autobiografico, «Una donna», che ha scandalizzato i benpensanti per le critiche al matrimonio, definito oppressivo e frustrante. Sibilla è libera, insofferente delle convenzioni, rifiuta il ruolo tradizionale della donna, – vista come figlia, moglie e madre – e ne rivendica la libertà e i diritti. E poi è bellissima, corteggiata, socialmente impegnata. Lei legge «i Canti» e il 25 luglio del 1916, gli scrive: «…Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli, meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo, liberi singhiozzando, senza mai vederci, né mai saperci, con notturni occhi. Or nei tuoi canti la tua vita intera è come un addio a me. Cuor selvaggio, musico cuore, chiudo il tuo libro, le mie trecce snodo». 
Il 3 agosto del 1916 si incontrano a Marradi, dove lui l’ha invitata rispondendo alla lettera che lo ha incantato. Comincia una passione furibonda e violenta, breve – la relazione durerà circa un anno – e che si concluderà tragicamente. Ma il presente è lo splendore abbagliante dell’estate toscana del 1916. 
Dino ha 31 anni, Sibilla 40. Lei veste di bianco, porta un grande cappello, lui va incontro emozionato a quella che – scrive Francesca Santucci – è considerata al tempo la donna più bella d’Italia. Tre giorni dopo quell’incontro, il 6 agosto, Sibilla scrive: «I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo. Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata così lontano. [..] Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino, Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore? Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è così forte. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire». 
E ancora, solo un mese dopo «Dino, Dino, Dino. Come fare, senza dirti che t’adoro, a mandarti qualche piccola parola che brilli e t’accarezzi più delle stelle?». L’idillio però dura poco. Gelosia, follia, possesso scrivono parole più amare e già nel gennaio del 1917 la relazione si è fatta soffocante, violenta. Dino scrive: «In un momento sono sfiorite le rose, i petali caduti [..] Abbiamo trovato delle rose, erano le sue rose erano le mie rose, questo viaggio chiamavamo amore, col nostro sangue e colle nostre lagrime». Silenzi, allontanamenti, liti furiose e riconciliazioni sono il pentagramma di un amore tossico, e delle «botte da orbi» che Sibilla riceve e ricambia.
La giornalista Anstrid Anhfelt, che li ospita per qualche giorno a Settignano nel dicembre 1916, scrive a Leonetta Cecchi Pieraccini che essi «per tutta la notte si sono battuti e graffiati e che…si ammazzano senz’altro, se qualcuno non interviene» (Sebastiano Vassalli). 
E non è solo la relazione a deteriorarsi. Il 22 gennaio 1917 Campana viene visitato dal professor Ernesto Tanzi, un illustre psichiatra. La malattia sta peggiorando, gli accessi violenti si fanno più frequenti e cattivi. Il risentimento è anche in lei che in quei mesi gli scrive : «Cane arrabbiato che m’hai morso, muoio, ma ti taglieranno la testa». 
Dino si è stabilito in val Susa, Sibilla in un rifugio sul Monte Rosa, le lettere si diradano fino a sparire. Quel «viaggio chiamato amore» – dal titolo della poesia che lui le dedica, testamento del suo sentimento – finisce davanti al cancello del manicomio di San Salvi dove Campana viene infine rinchiuso e dove si incontrano all’inizio del 1918. Scriverà lei: «L’ho riveduto così, dopo nove mesi, attraverso una doppia grata a maglia. Non ero mai entrata in una prigione. È stato un colloquio di mezz’ora, i carcerieri avevano quasi l’aria di patire sentendo lui singhiozzare e vedendo me irrigidita». 
Scriverà lui: «mi lasci qua, nelle mani dei cani, senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l’illusione che una volta tu mi abbia amato è l’ultimo male che mi puoi fare». L’ultimo biglietto è del 17 gennaio 1918 «Se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita». Ma poco tempo dopo, Dino viene trasferito nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dove muore nel 1932, forse durante un tentativo di fuga.