corriere.it, 10 giugno 2025
Intervista a Mario Lavezzi
«Avevo sedici anni. Suonavamo sempre. Avevamo un repertorio sterminato, nel senso che dovevi conoscere tutto: 260 canzoni, capito? Dovevi essere pronto a tutto. Arrivava uno e ti chiedeva un pezzo – dovevi saperlo fare al volo. Non c’era tempo per prepararsi. Salivi sul palco e suonavi».
Mario Lavezzi, classe 1948, tra i protagonisti della controcultura negli anni ’60-’70, si è affermato come autore e musicista sensibile, capace di attraversare generi e linguaggi, mantenendo uno sguardo personale sul mondo che cambiava. Autore di successo per artisti come Gianni Morandi, Lucio Dalla, Ornella Vanoni, Eros Ramazzotti, tra molti altri, ci racconta dei suoi inizi e dell’esperienza del Festival del Parco Lambro, negli anni Settanta a Milano.
Come ha iniziato a fare musica?
«Con il beat, negli anni Sessanta. Avevo un gruppo studentesco che si chiamava “I Trappers”, con Tonino Cripezzi, Bruno Longhi, Mimmo Seccia e Gianfranco Longo. Già il nome era un saccheggio, una parodia! Facevamo le cover degli stranieri in italiano, perché quello andava allora. Erano gli anni dei Beatles e dei Rolling Stones, e infatti un produttore della CGD ci sentì e ci portò in studio, alla Polygram, per farci incidere versioni italiane delle hit estere. Ma non è che facessimo concerti veri e propri: suonavamo di pomeriggio, sabato e domenica, nelle discoteche. All’epoca i locali erano tutti tra zona San Babila e Brera. Dove oggi c’è il Quadrilatero della moda la sera era vivo, brulicava di gente. Lì ci siamo fatti le ossa. Quella era la gavetta vera. La città era un crocevia di esperienze. Dai locali ai collettivi, dai concerti underground alle prime contaminazioni tra musica e impegno politico, tutto sembrava possibile».
I Trappers
Ma i Beatles li ha mai visti di persona?
Nel ’65, a Genova. Con Teo Teocoli, lui aveva qualche anno in più. Non avevamo neanche la patente quando sono venuti. Ci facemmo prestare la macchina dal proprietario del locale dove suonavamo a Finale Ligure per andarli a sentire. Gli amplificatori erano diretti: chitarra collegata direttamente all’ampli, senza mixer, senza niente. Era tutto grezzo, diretto. Ma da ragazzino era una cosa enorme, un colpo al cuore».
La mamma e il papà non erano preoccupati?
«Mio padre era avvocato, avrebbe voluto che seguissi le sue orme. Ma io no, non ci ho nemmeno pensato. Avevo la chitarra in testa da quando avevo tredici anni. Non me ne fregava nulla del resto. Andavamo a provare in via Tito Vignoli, in oratorio. Il prete ci lasciava la cantina per fare le prove. Capito che roba? Un oratorio dove si suonava rock. Mio padre, tutto sommato, aveva capito. Perché almeno avessi in mano un diploma mi iscrisse alla Cavalli Conti, la scuola all’angolo di piazza del Duomo, sopra l’Alemagna. In mezzo a Milano, con la chitarra in spalla e i sogni in tasca».
E vivere a Milano in quegli anni, per un giovane musicista?
«Bastava guardarsi intorno a Milano per capire che stava succedendo qualcosa di grosso. Dal boom economico stava nascendo un’esplosione di creatività, in tutti i settori: arti figurative, design, moda, cinema, teatro, musica. Era tutto in fermento. Non c’era solo il rock o il beat: c’erano gli architetti che cambiavano la città, gli stilisti che portavano la sartoria nella modernità, i registi che rompevano gli schemi, gli artisti che dipingevano sui muri e sui manifesti. Tutto si contaminava. Tutto spingeva verso il nuovo. E noi c’eravamo dentro, a suonare, a provare, a vivere. La scena era fitta di incroci, nascevano molti legami artistici e personali. Collaborazioni, confronti, a volte anche divergenze».
Il futuro, il vero futuro, è stato quello degli anni ’60 e ’70?
«Probabilmente sì. Gli inglesi avevano i Beatles e gli Stones. Noi avevamo i nostri musicisti, i designer, i registi, gli artisti, gli intellettuali. La cultura era ovunque, era una rivoluzione diffusa. C’era un’aspettativa potente, un modo di vivere che guardava avanti davvero. Un’energia, una spinta. Era un’epoca che rivoluzionava tutto: la musica, i vestiti, le idee, il modo di stare in strada. Noi, con i capelli lunghi – i “capelloni” – camminavamo per le vie e ci guardavano come fossimo alieni. Ma era così. Perché essere diversi allora era una scelta, era un segnale, un’adesione a qualcosa. E non era una moda. Era un atto. Un atto vero».
Le esperienze più forti di quegli anni?
«Nel 1975, con il gruppo di musica rock progressivo “Il Volo”- che avevo formato con Alberto Radius, Vince Tempera, Gabriele Lorenzi, Bob Callero e Gianni Dall’Aglio – ci ritrovammo in due eventi simbolo della controcultura italiana: il Festival del Proletariato Giovanile, al parco Lambro di Milano, organizzato dalla rivista “Re Nudo” di Andrea Valcarenghi, e il Festival Pop di Villa Pamphili a Roma. Veri e propri raduni generazionali, in cui musica, politica e sperimentazione si mescolavano in un unico respiro collettivo. Nello stesso anno, suonammo al tour di Francesco De Gregori e nell’album “Amore dolce, amore amaro, amore mio” di Fausto Leali. Purtroppo “Il Volo” si sciolse alla fine del 1975, lasciando dietro di sé due album e un’eredità musicale che ancora oggi affascina gli appassionati».
Che cosa accadde al Parco Lambro?
«Fu una kermesse assurda e bellissima, un po’ la Woodstock italiana. Noi eravamo pagati dalla casa discografica Rca. Gli spettacoli erano veri e propri happening. C’erano gli audiovisivi di “Re Nudo” sul Vietnam, contro la politica americana, tutte quelle cose lì. C’era la “comune” di Paolo Ciarchi: avevano una casa a Brera dove si faceva musica libera, ognuno prendeva uno strumento, anche una pentola, qualsiasi cosa, e via mezz’ora così, improvvisando, senza schema».
La contestazione era anche musicale?
«Ricordo Pappalardo: salì sul palco con due coriste nere. È venuto giù di tutto. Ci voleva coraggio, fu un gesto forte. Io ho scritto per lui “Una donna”, è stata la sua prima canzone pubblicata. Ma non era solo musica, era prendere posizione. Noi non eravamo estremisti. Gli Area, per esempio, facevano un discorso radicale, anche nella musica. Noi facevamo un progressive melodico, con testi cantati, con una struttura. A un certo punto io e Alberto Radius facemmo addirittura cambiare la scaletta di Andrea Valcarenghi per suonare prima e non dopo gli Area. Perché, dopo un’esplosione di free jazz politico, salire con un pezzo cantato, con delle armonie riconoscibili, poteva sembrare un passo indietro. E invece era un’altra cosa: era una musica che parlava, che si capiva, che coinvolgeva. Sperimentazione vera, contaminazioni, coraggio».
Del tour com De Gregori ricorda qualche aneddoto?
«Un concerto a Bari, noi eravamo sul palco e De Gregori ci faceva da spalla. Poi uscì da solo, con la chitarra. La gente lo contestava. Allora siamo usciti io e Alberto Radius per accompagnarlo, tutti insieme, per dargli forza. Perché in quel periodo andavano di più i gruppi: il pubblico voleva il suono pieno, le formazioni complete. Il prog aveva preso il sopravvento sulla musica pop, e in effetti molti artisti pop erano spariti dalla scena. Gianni Morandi, ad esempio, era un’icona, poi improvvisamente più niente. Cancellati. Ma non perché non valessero: semplicemente la musica si era spostata da un’altra parte. Morandi, per dire, si rimise a studiare. Tornò al Conservatorio per imparare il contrabbasso. Negli anni Settanta entrò in classifica solo con “Sei forte papà”, una canzone per bambini. Ma negli anni Ottanta trovò il rilancio, con “Canzoni stonate” di Mogol e poi “Si può dare di più”, che vinse Sanremo. Era una fase di trasformazione: o evolvevi, o restavi indietro».
E nel 1988 uscì l’album «DallaMorandi» con il singolo «Vita»...
«Andò così. Dalla e Morandi dovevano registrare un album e fare un tour insieme, e Lucio chiamò Mogol per chiedergli una canzone. Lui gliene propose una che avevamo scritto insieme lui ed io: “Angeli sporchi”. Era dedicata a una ragazza, amica di mia moglie. Una di quelle persone che quando entrano in una stanza tutti se ne accorgono. Tra lei e Mogol era scattata la scintilla, ma lei aveva fatto un errorino: gli aveva raccontato i suoi trascorsi prima di conoscerlo. Lui scrisse di getto il verso: “Anche gli angeli, capita a volte, si sporcano”: ecco, l’angelo sporco era lei. E la canzone iniziava con il verso “Cara in te ci credo”. Ma Lucio Dalla protestò: “Così sembra che ci chiamiamo ’cara’ tra noi due...”, e cambiò il testo: “Vita in te ci credo”, che poi divenne il titolo. Mogol, le parole, le fa uscire dalla musica. Per lui il testo è già dentro la musica. Lui lo decodifica».
Ha lavorato con tre mostri sacri: Battisti, Daniele e Dalla. Differenze?
«Lucio Battisti studiava tutto. Anche la tonalità, per ogni canzone. Doveva essere “credibile”. Cantava, provava finché trovava il punto giusto, quello che fa arrivare la luce. Le canzoni di Battisti le può cantare solo Battisti. Le puoi rifare mille volte, ma non sono la stessa cosa. Sono sue, cucite sulla sua voce, sui suoi silenzi. Era verticale, ci entrava dentro e le faceva sue. Mentre Pino Daniele, anche lui geniale, era diverso. Voleva che ogni parola avesse musicalmente il suono giusto. E poi Lucio Dalla, un genio totale. Ogni canzone era un mondo, una storia, una visione».