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 2025  giugno 08 Domenica calendario

Intervista a Giulio Napolitano

Ha scritto un libro di quasi cinquecento pagine e immagino lo abbia fatto anche per togliersi un peso. Non è la sola ragione, ma confrontarsi con la storia importante di un padre non è semplice. Giulio Napolitano, figlio di Giorgio, ne è consapevole. Ha sentito che era giunto il momentoper raccontare il precario equilibrio tra vita privata e pubblica. Giulio, minore di due figli (l’altro è Giovanni), è un professore universitario. Insegna diritto amministrativo e potremmo perciò immaginarcelo tutto avvitato alla sua dottrina. In realtà è un cinquantenne pieno di curiosità, di attenzione verso gli altri. Dice di sé che nella vita è stato un “imbranato”. È un aggettivo curioso formulato oggi, ma applicato a un adolescente di allora ha un senso. Non un’infanzia difficile, ma complicata sì. Ho lettoIl mondo sulle spalle (edito da Mondadori), come una piccola grande storia familiare, con i suoi protagonisti principali: Giorgio Napolitano, per 9 anni presidente della Repubblica, la moglie Clio e Giulio, il bambino che voleva aiutare il suo Re.
Il 29 giugno ricorre il centenario della nascita di Giorgio Napolitano. Come vorrebbe che fosse ricordato?
«Con semplicità, senza squilli retorici. Ricordando che è stato un buon servitore di questo Paese».
Il libro attraversa la sua vicenda familiare. È già un modo per ricordare suo padre.
«Fino alla fine mi sono chiesto se fosse giusto raccontare una storia così intima».
I dubbi da dove arrivavano?
«Da un’educazione che in casa voleva dire discrezione. Insomma attenersi al vecchio costume politico e morale per cui il privato deve restare tale».
Cosa l’ha convinta a parlarne?
«Alla fine ho pensato che valesse la pena affrontare una storia interpretata da personaggi che ho amato e che hanno il rispetto degli italiani. Oltretutto, progredendo nel racconto, sentivo che era anche un modo per fare i conti con me».
Suo padre non ha potuto leggerlo.
«Me ne rammarico, mia madre ha fatto in tempo a vederlo prima di morire».
Che storia è stata la loro, intendo tra suo padre e sua madre?
«Una storia durata quasi settant’anni. si conobbero a Napoli nel 1956 e si sposarono nel 1959. Quando la mamma è morta ho ritrovato una lettera che papà scrisse ai suoi futuri suoceri e nella quale chiedeva in moglie la loro figlia. Altri tempi».
Da che famiglie provenivano?
«Quella della mamma era molto semplice. Mio nonno paterno era un avvocato che non lasciò nulla. Non erano dunque ricchi. La mamma percepiva uno stipendio dalla Lega delle cooperative. Mio padre consegnava metà del suo al partito. Ricordo la preoccupazione quando decisero di comprare casa. Papà aveva già 55 anni».
Descrive i loro caratteri come molto diversi.
«Direi opposti. La mamma impulsiva, diretta, schietta, umorale. Ma era anche quella attenta ai conti. Papà era il contrario: riflessivo, pacato. Leale con il partito ma tenace nel difendere le proprie idee. Mi colpiva il modo di vestire. Di rado era senza giacca, anche la sera in casa la indossava. Le rare volte che l’ho visto con i mocassini, la polo e i jeans era al mare».
Mi fa pensare alle giacche di La Capria.
«Con Dudù furono molto amici. Le giacche effettivamente erano la loro ossessione, l’impronta inconfondibile di una certa eleganza napoletana».
Chi erano i suoi amici più stretti?
«Beh avendo sempre amato il cinema erano soprattutto registi: Francesco Rosi, Ettore Scola, Federico Fellini, Giuliano Montaldo. Con Rosi soprattutto il legame era nato quando erano ragazzi. E poi amava la musica classica. La cultura per mio padre era fondamentale. Ne fu responsabile per il partito dal 1969 al 1975».
Anni di forte cambiamento.
«Ai quali guardò con curiosità. Interessandosene pur non condividendo le punte più estreme. La fortuna di mio padre è stata di avere interessi che andavano al di là della politica».
I suoi interessi invece quali erano?
«Il calcio, la storia, la scuola. Ho sempre studiato con una certa facilità».
Si definisce “supponente” nei confronti dei suoi compagni.
«Dica pure insopportabile. Rivendicavo il fatto che essere bravo non comportava l’obbligo di passare i compiti».
Non faceva copiare gli altri.
«Distinguevo tra quelli con difficoltà oggettive, per i quali non avevo problemi ad aiutare, e coloro che non avevano voglia di studiare. Capisco però che a quella età non aveva molto senso».
Che bambino è stato?
«Saccente e imbranato. La prima caratteristica serviva forse a coprire la seconda».
Si chiama insicurezza, ma in fondo è normale in un adolescente.
«La verità è che me la sono trascinata a lungo, come una vicina dell’anima con cui è stato difficile convivere».
Dove ha pesato di più?
«Sicuramente nelle relazioni sentimentali. Un capitolo complicato».
Perché?
«Cominciavo una storia e la chiudevo quasi subito. Oppure non la iniziavo affatto. Ero ossessionato dall’idea di andare incontro a un fallimento sentimentale».
Paura di essere respinto?
«Sì, i miei amici non capivano tutta questa prudenza. Ed è chiaro che non ci stavo bene. Fin dall’adolescenza ho combattuto queste situazioni provando a esercitare un autocontrollo».
I suoi notavano le sue difficoltà?
«Soprattutto mio padre era preoccupato. Fatto sta che chiesi aiuto a uno psicologo: Adriano Ossicini».
Immagino ne parlò ai suoi.
«Lo dissi a mia madre la cui reazione fu piuttosto fredda. Quanto a mio padre, non ricordo. Ma sapevo che non credeva affatto che i problemi si risolvessero indagando su quell’entità misteriosa che chiamiamo inconscio. Comunque andai da Ossicini».
Al di là del generico disagio c’era qualcosa di più preciso che voleva affrontare?
«Malgrado i timori e le insicurezze avvertivo una mia eccessiva presenza nella vita di miei. Come se volessi prevenire il loro controllo, rispondendo così alle loro ansie».
Partecipava anche agli impegni politici di suo padre?
«Mi piaceva prendermi cura attraverso di lui e con lui delle cose della politica. Non che avessi aspettative. Ma essendo un mondo dove papà era protagonista non mi dispiaceva rispecchiarmi in quello status. Mi capitava a volte di seguirlo nelle missioni nazionali e internazionali».
C’è un episodio rabbioso, a questo proposito, che lei racconta.
«Oddio, ero bambino. Eravamo a Mosca in uno di quei ricorrenti viaggi in cui il Pci mandava i suoi rappresentanti più significativi. Ricordo che pranzammo con un alto dirigente del comunismo sovietico. In realtà quella che doveva essere una vacanza si stava trasformando in un viaggio di lavoro. A tavola eravamo seduti vicini. Lui concentrato nella discussione, io come se non ci fossi».
Che cosa accadde?
«Cercai di richiamare più volte la sua attenzione. Niente. Alla fine esasperato, con un gesto di cui non mi resi conto, gli piantai la forchetta sul dorso della mano. Non ricordo altro. Tranne che fu portato in un ospedale per mettergli dei punti. La cosa non ebbe conseguenze, salvo la piccola cicatrice che gli restò a lungo».
Quanto alle sue, di conseguenze?
«Ho riflettuto su quell’episodio. Si trattò del classico disagio che a volte il bambino vive nel passaggio all’adolescenza. Col tempo si chiarì che il mio problema era la necessità una maggiore autonomia. Il lavoro analitico che, negli anni, feci con Ossicini mi liberò dagli eccessivi lacci familiari, lasciando intatto l’affetto per i miei».
Un difficile equilibrio.
«Ma anche necessario se volevo risolvere le mie crisi interiori».
Pensa di esserci riuscito?
«L’analisi non è mai una guarigione completa, ma credo di aver trovato un buon compromesso tra ansie e insicurezze, da un lato e le risposte che il mondo chiede dall’altro. In fondo ciò che ho soprattutto patito è di essere stato per lungo tempo considerato il “figlio di…”».
Accennava all’interesse per il calcio.
«Dall’adolescenza in poi ho sviluppato un’autentica competenza per quel mondo. Ho perfino immaginato di fare il giornalista sportivo. Ricordo l’incoraggiamento di mia madre. Alla fine ha prevalso la fede calcistica, scoprendo nella Lazio la squadra del cuore».
Come definirebbe questa fede?
«Vissuta in modo sano, senza fanatismi, è una bellissima cosa. In nessun altro luogo, come nel calcio, felicità e tristezza si inseguono e si alternano così velocemente».
A proposito di “figlio di…” come ha vissuto l’elezione di suo padre al Quirinale?
«Intanto non era nelle sue aspettative. Giunto all’età di settant’anni papà voleva chiudere con la politica e dedicarsi ad altro. La sua candidatura arrivò dopo ripetuti altri tentativi. Seppi dell’elezione nella nostra casa romana di via dei Serpenti. La mamma era in cucina. Telefonarono annunciandomi che era stato superato il quorum. La raggiunsi ai fornelli, le diedi la notizia e ci abbracciammo».
Com’è cambiata la loro, la vostra vita?
«Venendo da un ambiente semplice, il cambio di residenza è stato un po’ complicato da accettare».
In che senso?
«Il nostro appartamento, al quale si accedeva da un ascensore privato, non prevedeva la cucina. Perfino un caffè bisognava ordinarlo. Papà soffriva un po’ le cerimonie, i rituali, le strette regole che il protocollo esigeva. Lavorava fino a tardi, mentre la mamma leggeva o guardava la televisione. Amava soprattutto le soap opera, diceva che erano un po’ kitsch e un po’ come i grandi romanzi ottocenteschi».
Suo padre come ha vissuto la rielezione dopo il settennato?
«Non bene. Ma i partiti non riuscivano a mettersi d’accordo. E si rivolsero a lui. Provò a resistere. Minacciò perfino di rendere pubblico il suo no al secondo mandato. Mi disse: vogliono che io esca orizzontale dal Quirinale. Ma alla fine accettò anche perché il Paese era in uno stallo pericoloso. Furono due anni supplementari faticosi per un uomo di quasi novant’anni».
Come tornaste alla vita normale?
«Ci fu una grande festa organizzata nel rione Monti dove abitavamo prima della lunga parentesi al Quirinale. I miei avvertirono l’affetto della gente e ne furono felici. Tornavano alle vecchie abitudini. Ciò di cui non mi resi conto è che stavano invecchiando rapidamente. Papà aveva dovuto affrontare un’operazione pesante e difficile, la mamma era caduta. Il ricovero mise in grande ansia papà. Insomma si annunciava l’ultimo capitolo della loro vita. Ma non riuscivo a percepirne la fragilità. La compresi solo quando lui perse praticamente la vista. Non poteva più leggere. Si dotò di certi apparecchi che ingrandivano la pagina. Ma durò poco. Alla fine ero io che seduto accanto a lui gli leggevo e lo informavo. Sentivo, al di là dei rari momenti in cui mi sembrava felice, che stava perdendo interesse per la vita».
È morto a 98 anni il 22 settembre 2023. Come ha reagito sua madre Clio?
«Visto il lunghissimo legame temetti che non gli sarebbe sopravvissuta a lungo. Invece la sua vita è durata un altro anno. Continuò nella discrezione che le era solita: a leggere, a guardare la televisione, ad andare nella piazzetta Monti, sedersi a bere un tè e a guardare la gente. È un quartiere molto affollato, un paesone in cui il caos a volte si trasforma in pienezza di vita».
Diceva che la mamma fece in tempo a vedere il libro.
«In realtà vide la copertina, le bastò per sentirsi felice e orgogliosa».
Lei lo è altrettanto?
«Io credo semplicemente che questo lungo racconto privato mancava a una storia politica straordinaria. Pur tra mille dubbi l’ho scritta. L’ho scritta oscillando tra l’urto della paura e la spinta dell’orgoglio. Paura di mettere in gioco la reputazione di mio padre e orgoglio per aver partecipato a qualcosa di più grande e importante di me».