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 2025  giugno 08 Domenica calendario

Anita oltre Garibaldi. Anatomia di un mito

C’è la donna e c’è il mito. Nel romanzo storico Anita (Sem) Laura Calosso racconta la vita della prima moglie di Giuseppe Garibaldi, morta giovane nel 1849, cercando di cogliere la sostanza umana di una figura entrata nella leggenda. Abbiamo invitato a discutere con l’autrice del libro la storica Silvia Cavicchioli, biografa a sua volta di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva. Meglio nota come Anita Garibaldi.
SILVIA CAVICCHIOLI – Parliamo di una donna analfabeta, che sapeva scrivere poco più del suo nome. Quindi non abbiamo documenti autografi. Inoltre Anita muore a soli 28 anni. Per ricostruirne la vita abbiamo una tradizione orale aneddotica e raffigurazioni un po’ stereotipate. Appena diciottenne questa figlia della pampa brasiliana incrocia nel 1839 la vita di un uomo tra i più importanti di quell’epoca, viene attratta nella sua orbita leggendaria e ne diventa presto un elemento essenziale. Ma ciò la rende una figura evanescente rispetto all’epopea del marito. D’altronde è il caso di molte altre donne, che passano alla storia come mogli, madri o figlie di qualcuno.
Che cosa possiamo dire della sua vita prima di Garibaldi?
SILVIA CAVICCHIOLI – Anita ci appare forte, libera, anticonformista, istintiva. Ha un carattere tenace, affronta rischi e sopporta privazioni. Nasce in Brasile, probabilmente a Laguna, nel 1821, figlia di un mandriano e di una sarta. Perde presto il padre e si trova a vivere in povertà. Poi a 14 anni sposa un calzolaio.
LAURA CALOSSO – Nel romanzo ho cercato di essere aderente ai fatti giorno per giorno. Ma non è facile raccontare una figura di cui sono rimaste ben poche tracce. Ho pensato così di darle voce dopo la morte, attribuendole una consapevolezza che in vita non poteva avere completamente per la sua condizione di donna giovane che incontra vicende più grandi di lei.
Bisognava anche fare i conti con il mito.
LAURA CALOSSO – Si pensi al famoso monumento dedicato ad Anita sul Gianicolo, a Roma, in cui è raffigurata a cavallo con la pistola in mano e in braccio il primo figlio, Menotti, che al tempo di quella fuga leggendaria era nato da pochi giorni. Fosse andata davvero così, il bambino sarebbe certamente morto. Più che alla vera Anita, in casi come questi siamo di fronte al contraltare femminile di Garibaldi, che serve a esaltare la figura dell’eroe. Non è agevole capire che cosa sia realmente successo.
Ma l’esistenza di Anita non fu comunque molto avventurosa?
LAURA CALOSSO – Certo, ma le condizioni in cui si trovò dopo la nascita del figlio, nel bel mezzo di una guerra in Sudamerica tra agguati e inseguimenti, erano così difficili che non possiamo immaginarla impegnata in un’impresa diversa da quella di assicurare la sopravvivenza a sé stessa e al neonato. Anita vive allora in un contesto di brutalità e violenza, non sa di chi potersi realmente fidare. Siamo lontani da una dimensione epica.
In che modo il rapporto tra Anita e Giuseppe fu condizionato dal maschilismo dominante nell’Ottocento?
SILVIA CAVICCHIOLI – Nella società dell’epoca la donna è relegata in una dimensione privata e famigliare. Ma i moti del 1848 in Europa aprono spazi pubblici di libertà per la componente femminile, anche se naturalmente parliamo di persone istruite e urbanizzate, non delle contadine che abitavano in campagna. Dopo l’unità d’Italia si torna invece al «disciplinamento domestico» del ruolo tradizionale: la funzione riproduttiva, il lavoro di cura, l’allevamento dei figli.
Anita come si colloca?
SILVIA CAVICCHIOLI – Sfugge ai perimetri obbligati, condivide gli spazi maschili, combatte. Ha del resto la fortuna di aver trovato un uomo che, pur divenuto il simbolo di una virilità bellicosa, ha maturato una forte sensibilità verso la questione femminile. Già da giovane, prima dell’esilio in Sudamerica, Garibaldi entra in contatto con alcuni seguaci di Claude-Henri de Saint-Simon e viene influenzato dalle loro idee favorevoli a garantire pari diritti alle donne. Inoltre nei suoi scritti riconosce ad Anita doti e virtù altissime. La descrive come una donna che non è accanto, ma insieme a lui.
E le altre?
SILVIA CAVICCHIOLI – Le corrispondenze femminili accompagnano tutto l’epistolario di Garibaldi: non solo perché le donne sono grandi sostenitrici delle sue iniziative, ma anche perché lui attribuisce loro ruoli importanti. Alcune presiedono i comitati di sostegno alle sue imprese, altre lo seguono nelle spedizioni militari. Anita muore presto, durante la ritirata da Roma del 1849, e possiamo interrogarci su che cosa sarebbe successo se fosse sopravvissuta, ma certo ci sono figure femminili presenti in tutta la biografia garibaldina. E lo stesso vale per Giuseppe Mazzini, che ha anche lui una spiccata considerazione per le donne.
Nel romanzo però Anita si sente a volte trascurata dal marito, sempre impegnato nelle sue imprese belliche, ed è anche un po’ gelosa.
SILVIA CAVICCHIOLI – Però si può capire che Garibaldi nei momenti più pericolosi non volesse averla accanto. Pensiamo alla Roma repubblicana della primavera 1849, assediata dalle preponderanti forze francesi, dove molti patrioti si sentono votati alla morte. Per giunta la coppia ha allora tre figli piccoli, più un altro in arrivo. È ovvio che Garibaldi preferisca che Anita rimanga a Nizza, ospite di sua madre.
LAURA CALOSSO – Se consideriamo le date, ci accorgiamo che il tempo trascorso da Giuseppe con la prima moglie non è lunghissimo. Tra l’altro in Sudamerica, durante uno dei periodi di separazione, Anita perde la figlia Rosita, di due anni. Nel romanzo il punto quindi non è il disagio della protagonista per il comportamento egoista del marito, bensì l’angoscia per la sua assenza. Anita resta spesso sola con i bambini, con scarsi mezzi, in ansia perché non sa dove sia Garibaldi, se vivo oppure morto.
Peraltro, quando incontra Giuseppe, Anita ha già un marito.
LAURA CALOSSO – Certo. E non si sa esattamente che fine abbia fatto quell’uomo, forse si era allontanato al seguito delle truppe nemiche di Garibaldi in Sudamerica. Poi nel 1842 esce fuori un certificato di morte e i due innamorati si possono sposare. Ma nei primi tre anni la loro convivenza è irregolare, per cui si può capire che Anita si sentisse malvista dal contesto sociale, in quanto non era la compagna legittima di Garibaldi. Io la immagino mentre ripercorre la sua vita dopo la morte e la nota dominante mi sembra una sensazione di precarietà.
Insomma, Garibaldi è assolto dall’addebito di maschilismo?
LAURA CALOSSO – Il fatto è che lui si ispirava al modello sudamericano del gaucho, caratterizzato da legami famigliari molto fluidi. Garibaldi non era un uomo da matrimonio stabile, propenso a instaurare vincoli duraturi. E sua madre dubita che lui e Anita siano realmente coniugi regolari. Li esorta addirittura a risposarsi. E diffida della nuora, forse anche per il colore scuro della sua pelle. In definitiva, al di là delle rappresentazioni di maniera, risulta che Anita abbia condotto un’esistenza molto problematica.
È anche per reazione ai momenti di assenza del marito che lei decide di raggiungerlo a Roma nel 1849, nonostante i rischi?
SILVIA CAVICCHIOLI – Anita ripercorre un tragitto già seguito in precedenza, appoggiandosi nelle tappe intermedie ai sostenitori di Garibaldi, che la ospitano e l’aiutano. Tuttavia la sua partenza è per l’epoca un gesto senza dubbio trasgressivo, più che imbracciare un fucile. Nell’Ottocento le donne non viaggiano mai da sole, la cosa è ritenuta del tutto sconveniente. E bisogna tener conto che Anita attraversa anche territori turbolenti.
Però il suo coraggio non è isolato. Molte altre donne partecipano al movimento patriottico. Vogliamo parlarne?
SILVIA CAVICCHIOLI – La guerra e la rivoluzione sono fattori di accelerazione improvvisa che aprono grandi opportunità per la partecipazione femminile. Ci sono avanguardie che combattono o comunque seguono gli eserciti nell’Ottocento: per esempio le vivandiere che accompagnano le truppe regolari, ma anche le formazioni volontarie come i garibaldini. Altre donne si occupano dei feriti, assumendo anche la guida di ospedali, come fa Cristina Trivulzio di Belgiojoso a Roma. Accedere al corpo maschile infermo è un atto rivoluzionario. Non a caso Papa Pio IX, tornato sul trono dopo la sconfitta della Repubblica, bollerà le donne impegnate negli ospedali urbani come «sfacciate meretrici». Poi c’è la questione dei prigionieri e degli esuli politici, le cui mogli e madri assumono ruoli di grande importanza. Altre donne raccolgono fondi, promuovono petizioni, scrivono ai protagonisti del Risorgimento: assistiamo a una forte assunzione di rappresentanza politica.
È un’anticipazione di quanto avverrà durante la guerra partigiana?
SILVIA CAVICCHIOLI – Non solo. Bisogna considerare anche le lotte contro la dittatura che precedono la Resistenza. C’è un grande sommerso di contributi femminili all’impegno antifascista che va riportato in superficie.
LAURA CALOSSO – A proposito di feriti: durante la guerra in Sudamerica si usava abbandonarli. Anita invece interviene per aiutarli, per curare quei corpi straziati. D’altronde è una donna eccezionale, cresciuta in un ambiente piuttosto selvaggio. Per esempio è lei che insegna al marinaio Garibaldi come cavalcare. Forse si trova a suo agio più nella lotta che come madre relegata a casa per accudire i bambini, lontana dal marito, tormentata dall’angoscia e dalla gelosia.
Per questo nel 1849 sceglie di andare a Roma?
LAURA CALOSSO – In quel momento Anita è incinta e malata. Teme di non rivedere suo marito vivo ed è disposta a sfidare la morte. Il suo è un viaggio della disperazione, in cui dimostra un coraggio immenso. Credo che Garibaldi, quando la vide, sia rimasto sbalordito e al tempo stesso terrorizzato per timore di perderla. Anita non è in condizione di andare sulle barricate e si dedica ai feriti.
Poi la Repubblica viene soffocata dai francesi.
LAURA CALOSSO – E Garibaldi cerca di fare in modo che la moglie non lo segua nel tentativo di raggiungere Venezia, allora ancora in mano ai patrioti, ma assediata dagli austriaci. Anita insiste: l’unica certezza della sua vita è il legame con il marito. Forse non era neppure molto consapevole degli ideali per cui si battevano i patrioti italiani. D’altronde Garibaldi, che nel 1844 era entrato nella massoneria, probabilmente i temi politici non li discuteva in sua presenza. Ma se proviamo a immaginare Anita ai tempi della Resistenza, certamente l’avremmo trovata in prima linea.
SILVIA CAVICCHIOLI – Non c’è dubbio che seguendo il marito nel tragitto verso Venezia, dove non arriveranno mai, lei è mossa dalla forza della disperazione. È una vicenda davvero commovente. Quanto agli ideali patriottici, è una forzatura presentare Anita quale combattente per l’unità italiana. La sua adesione al moto risorgimentale è fortemente istintiva: non vedeva certo la distinzione tra moderati e democratici.
LAURA CALOSSO – Vorrei ricordare inoltre che, dopo la sconfitta della Repubblica, Garibaldi ha la possibilità di mettersi in salvo, insieme a Mazzini, partendo da Civitavecchia e portando con sé la moglie. Ma non lo fa e questo sarà per lui un forte motivo di rimpianto. Forse sentì irresistibilmente il dovere di proseguire la lotta.
SILVIA CAVICCHIOLI – In quella fase esplodono le tensioni fra Mazzini e Garibaldi, che lasceranno uno strascico di rimbrotti reciproci. Il comandante nizzardo sente che la guerra è la sua principale ragione di vita. E ambisce a rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria dopo la sconfitta subita a Roma. Ovvio che poi, in seguito al fallimento della spedizione verso Venezia, Garibaldi abbia provato sensi di colpa nei riguardi non solo di Anita, morta di malattia durante il tragitto, ma dei tanti fedeli compagni di lotta – Ugo Bassi, Ciceruacchio e altri – che avevano perso la vita, uccisi dai pontifici o dagli austriaci, in quella marcia temeraria.
Che cosa si può dire del mito postumo di Anita, culminato nel monumento voluto da Benito Mussolini?
SILVIA CAVICCHIOLI – Sin dal momento della morte a Mandriole, in Romagna, la donna brasiliana entra nel mito. La sua precoce scomparsa diventa il martirio di Garibaldi, che invece morirà di vecchiaia a Caprera, guardando il mare, nel 1882. Nella retorica risorgimentale l’atto di offrire la vita è centrale. Ma dato che l’eroe più popolare sopravvive a tutte le guerre, la morte di Anita è considerata il suo sacrificio personale. Questo vale soprattutto fino allo scontro dell’Aspromonte nel 1862, quando Garibaldi viene ferito e il sangue versato lo rende in qualche misura un martire.
E Anita?
SILVIA CAVICCHIOLI – Lo stesso marito ne promuove l’immagine come indomita combattente. E poi contribuisce molto lo scrittore francese Alexandre Dumas padre, che dedica due libri all’epopea delle camicie rosse e fa di Anita il perfetto contraltare dell’eroe romantico. Quindi nel Novecento la sua immagine viene rielaborata, diventa un simbolo dell’amore e viene depotenziata della componente avventurosa. È presentata come un modello di devozione femminile, madre virtuosa pronta a sacrificarsi per il marito e i figli.
Poi arriva il fascismo.
SILVIA CAVICCHIOLI – Mussolini non può derogare da un confronto con Garibaldi: fra l’altro il cinquantenario della morte dell’eroe in camicia rossa, che cade nel 1932, coincide con il decennale della marcia su Roma. E allora il Duce investe su Anita per celebrare la santa unione coniugale del patriota nizzardo.
E la statua sul Gianicolo?
SILVIA CAVICCHIOLI – Lo scultore Mario Rutelli recupera l’immagine avventurosa di Anita, la raffigura a cavallo e con un’arma in pugno. Ma viene aggiunto il bambino in braccio, per esaltare la maternità. Del resto il discorso che Mussolini tiene per l’inaugurazione del monumento è tutto su Garibaldi: ad Anita dedica due parole in croce.
LAURA CALOSSO – Nel monumento vengono inumate le spoglie della moglie di Garibaldi, che era andato a recuperarle nel 1859 in Romagna. Ma il capo delle camicie rosse aveva appena avuto una figlia illegittima e va a riesumare Anita insieme a Marie Espérance von Schwartz, sua probabile amante. Insomma, l’insistenza del fascismo sull’amore eterno dei due sposi non ha fondamento.
È una manipolazione?
LAURA CALOSSO – Mussolini vuole che il suo regime sia consacrato come il momento più importante della storia italiana, quindi pretende che abbia la precedenza sull’epopea garibaldina. Tra l’altro la richiesta di portare a Roma i resti di Anita arriva dal nipote, Ezio Garibaldi, non è un’iniziativa del governo. E Mussolini alla celebrazione si limita a tenere un breve discorso. Sappiamo che cosa pensava il Duce delle donne e certo non rientrava nei suoi programmi valorizzare Anita, se non come moglie devota. Eppure lei forse avrebbe desiderato una vita più tranquilla, anche e soprattutto per proteggere i suoi figli.
SILVIA CAVICCHIOLI – Anita, come scrisse Luigi Barzini junior nel 1969, è «poco più di un fantasma», data la scarsa documentazione che abbiamo su di lei. Ciò nonostante, ne è nato un mito caleidoscopico. È come se ogni periodo storico avesse prodotto la sua Anita. È stata presentata come un modello di donna forte, lungamente smentito nella realtà in un Paese in cui fino al 1946 non c’era il suffragio femminile. Il messaggio in fondo era questo: ci sono le sante e le eroine, ma tutte le altre donne devono restare in casa al loro posto.