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 2025  giugno 09 Lunedì calendario

Intervista a Neri Marcorè

Un mondo pieno di colori, parole, avventura, battute e personaggi stralunati. I fumetti come passione e nutrimento per una vita da lettore, ma anche come ispirazione comica, grottesca e surreale per una carriera da artista.
Neri Marcorè, e dire che li chiamano giornalini.
«Nulla di quanto li anima è un diminutivo. I buoni cartoon hanno piena dignità letteraria, e io non smetto di sfogliarli».
Quando cominciò?
«Da bambino, come tutti. L’edicola di Porto Sant’Elpidio era il mio paese dei balocchi, mi sentivo come Pinocchio e volevo tutto, volevo leggere tutto. La mia mamma mi insegnò le lettere dell’alfabeto prima che andassi a scuola, intorno ai cinque anni già leggiucchiavo Topolino».
Chi glielo forniva?
«Mia zia Annina aveva una rivendita di vino e olio, e usava i giornaletti per incartare la roba. Qualche pagina, però, la lasciava anche a me. Il resto lo compravano mamma e papà».
Al “Best Movie Comics and Games” di Milano, lei ha raccontato la sua passione per Mister No, un fumetto di culto che non c’è più.
«Facciamo un passo indietro. Quando la mia vicenda di lettore è proseguita dopo Topolino, sono arrivati Comandante Mark, Capitan Miki, Black Macigno e Zagor, il mio preferito. Mi piaceva più di Tex, perché affrontava i cattivi a colpi di scure e non di rivoltella, un po’ più difficile così, serviva più coraggio. Mister No era della stessa mano di Zagor: un antieroe».
Ex pilota di aerei della seconda guerra mondiale, rifugiato in Amazzonia.
«Un personaggio anche fragile, imperfetto, un po’ alcolizzato e sensibile alle belle donne lì a Manaus. Mi sembrava molto più umano dei supereroi Marvel, che viceversa non mi hanno mai preso. L’Uomo Ragno e i Fantastici Quattro non facevano per me. Anche l’impaginazione di quegli albi la trovavo faticosa, mi costava strani giri dello sguardo per seguirla. E poi, gli scenari sudamericani erano pieni difascino. Io che non sono mai stato in America del Sud, ancora nutro così il mio immaginario, ben sapendo che se ci andassi rimarrei deluso perché ormai sarà tutto cambiato. Però quella parte di mondo mi chiama: mio nonno lavorò in Argentina, dove imparò quello che lui chiamava il “castegiànos”».
Dai fumetti ai romanzi il passaggio è stato automatico?
«Praticamente sì. E senza cambiare gusti: García Márquez, Amado e Scorza sono i miei preferiti, senza dimenticare Galeano e Soriano. Sempre in quella parte del mondo si resta».
A occhio, nei suoi personaggi comici e a volte strampalati c’è qualcosa dei cartoon, o no?
«Sono stati molto importanti per la mia formazione di attore. Penso al Gruppo TNT e alle Sturmtruppen specialmente. Bob Rock, così parossista e iperbolico, mi ha ispirato di sicuro. E nelle Sturmtruppen, in quei soldati tedeschi idioti, ho scoperto la stupidità del male. Oppure Galeazzo Musolesi, il federale di San Giovanni in Persiceto, un altro notevole imbecille. Penso, comunque, che proprio la stupidità del male ci aiuti almeno un po’ a sopportarlo».
Ci sono strisce che non smette di ricordare?
«Altroché! Una, sempre delle Sturmtruppen, con un gruppetto di tedeschi che provano ad aprire la porta diuna casupola spingendo, mentre sull’uscio sta scritto “tiraren”. E uno di loro commenta: “Ach, tefono ezzerre arrifati qvelli del Genio”»
Gli sfigati dei fumetti come forma di ispirazione?
«Almeno agli inizi, direi di sì. Uno come Puccio Bastianelli è uscito da lì, in fondo è una specie di parente di Bartolomeo Pestalozzi da Pinerolo, allievo prediletto di Stanislao Moulinsky, altre memorabili creature di Bonvi e De Maria. I fumetti formano il modo di essere, sono uno sguardo verso la vita, insegnano ironia e autoironia.
Non c’è solo avventura, ma parole: lo ripeto, quelli benfatti hanno piena dignità autoriale. Bonvi era un genio assoluto, anche se sono serviti Hugo Pratt e Corto Maltese per sdoganare il genere a tutti gli effetti».
I giornalini li legge ancora?
«Sì, anche se un po’ meno di prima. Ma un Dylan Dog sbuca sempre fuori, e da poco ho scoperto Julia, investigatrice interessante».
Non pensa che perdere l’abitudine ai fumetti possa essere un grave danno per bambini e ragazzi?
«Veramente, i miei figli che ormai sono più che ventenni, tra un esame universitario e l’altro sfogliano ancora Tex e Topolino. Credo che le giovani generazioni non abbiano mai smesso di amare i fumetti, anche se purtroppo le edicole non esistono quasi più».
Non crede che Trump e Musk siano anche dei terribili fumetti?
«Sì, assolutamente. Ci sono forme del male che possiedono un’irresistibile potenza grottesca. Il Duce era una comica, e Hitler non per niente ispirò Chaplin. I dittatori fanno soprattutto ridere, al netto dei tremendi orrori di cui si macchiano».
La sua lunga carriera di doppiatore anche di cartoon è un’altra derivazione dei fumetti?
«Direi di no, è dipesa più dalla mia attitudine a cambiare voci, intonazioni e cadenze dialettali: le prime cose che vennero alla luce quando, in tivù, facevo più che altro imitazioni».
I fumetti, poi i romanzi: lei ha condotto per un decennio “Per un pugno di libri” in Rai: un altro passaggio coerente.
«Avevo già lavorato in quella trasmissione con Patrizio Roversi, e quando mi chiamarono alla conduzione fui davvero felice. Perché la letteratura resta una solidissima base sulla quale appoggiare le cose».