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 2025  giugno 09 Lunedì calendario

L’inganno di Manaus e il boom dell’industria che non risparmia la foresta

Quando arrivi al porto industriale di Manaus, sembra incredibile che navi transoceaniche come quelle che vi sono ospitate possano aver attraversato un fiume e che questo sia, in realtà, il porto fluviale più grande del mondo. Gigantesche navi porta container e lunghissime petroliere attraccano ai nuovissimi moli dei vari, enormi, approdi privati con le loro variopinte e gigantesche gru da carico. Un tripudio di container multicolore (oggi vanno molto di moda il viola e il rosa) forma una muraglia che si staglia sullo sfondo verde scuro della foresta e delle palme. Non si riesce a immaginare nulla di più estraneo al mondo tranquillo e ricco di suoni della foresta tropicale del traffico caotico e rumoroso di imbarcazioni e merci in quei 15 km di fiume asserviti a un progetto di sviluppo economico che ha radici molto antiche. E che ha sempre, puntualmente, fallito, arricchendo esclusivamente i più ricchi e precipitando nella disperazione la grande massa dei più poveri.

Quando viene creato, nel 1907, il porto fluviale di Manaus, la città era un avamposto coloniale che assisteva a un miracolo economico, dopo essere stata Fortezza Verde fra la sua nascita, nel 1669, e il 1850. La Fortaleza de Sao José do Rio Negro serviva fino ad allora a difendersi dalle incursioni commerciali olandesi e a controllare le tribù indigene. I Manaos, con i loro crani caratteristicamente rasati, avevano così tanto resistito ai reiterati tentativi dei portoghesi di asservirli come forza lavoro, che veniva loro riconosciuto il diritto di nominare la città stessa. Ma nel 1850 cambia tutto, finisce il sistema economico feudale e inizia l’era del capitalismo commerciale. Gli attori sono, però, sempre gli stessi: se i primi coloni dal Portogallo erano criminali appena liberati, nobili corrotti, militari e avventurieri, la media borghesia che intraprende il nuovo modello economico è strettamente imparentata con quella radice. Asservimento degli indigeni e importazione di schiavi neri dalle colonie del Golfo di Guinea costituiscono comunque la forza lavoro di fondazione. Le seringas erano già state fabbricate da diverso tempo dagli indios: recipienti di medie dimensioni per trasportare l’acqua, ma non più di legno, bensì fabbricate con un materiale antico, ma considerato sotto una nuova luce proprio a partire dalla metà del XIX secolo, la gomma naturale, o, meglio, il caucciù (nome messicano), Hhevé per le tribù locali. Fra il 1850 e il 1912 Manaus conosce la sua prima età dell’oro basata sull’estrazione e lo sfruttamento della gomma: migliaia di seringueiros incidono quotidianamente gli alberi della gomma per trarne il prezioso secreto che viene direttamente esportato in Europa e in America. Ma chi si arricchisce sono solo i baroni della gomma.

L’occasione degli pneumatici
Nel 1839 Goodyear aveva inventato la vulcanizzazione della gomma per renderla utile nella fabbricazione dei pneumatici della nascente industria automobilistica. Ma gomma naturale negli Stati Uniti e in Europa non c’era ed ecco quindi che per Manaus si offre un’occasione irripetibile che porta a uno sviluppo economico inaudito: in realtà solo l’arricchimento privo di investimenti di una classe borghese impreparata e arretrata. Il flusso di denari generato è enorme: un via vai di battelli a vapore, a ruota e a vela popola il porto che cresce continuamente e masse di lavoratori vengono deportati in Amazzonia soprattutto dal Nordest.
Fra il 1890 e il 1910 Manaus diventa addirittura la città più ricca del mondo: nel suo nuovo mercato, forgiato in ferro a imitazione de Les Halles, si commercia di tutto, dalle scimmie ai diamanti. Il Teatro dell’Opera, abbellito con marmi italiani e piastrelle alsaziane, ancora oggi immagine simbolo della città, vede esibirsi i più grandi artisti, compresa la compagnia stabile di Enrico Caruso (nel 1899). Come nel Fitzcarraldo di Werner Herzog (1982), l’Opera viene portata nel cuore della foresta amazzonica. Tutto questo a contrasto con la povertà della gran massa della popolazione: lavoratori del Nordest, indios scissi dalle proprie tribù, meticci figli di schiavi (la schiavitù viene abolita in Brasile nel 1888), prostitute si affollano alla periferia della città vivendo di nulla fra malattie e degrado. I primi agglomerati temporanei, instabili, poco sicuri, malsani e pericolosi che diventeranno le favelas affondano le loro radici in quel periodo lì.
L’illusione, già chiara per i poveri, finisce in un lampo anche per chi si era arricchito. Decine di migliaia di semi dell’albero della gomma vengono trafugati da un perfido albionico, Henry Wickham, che, nel 1876, li porta in Gran Bretagna, da dove vengono trasportati a Ceylon, dimostrando una straordinaria capacità di adattamento e iniziando una produzione asiatica, controllata dagli inglesi, che soppianta quella amazzonica. Arriverà a breve anche la gomma sintetica e gli alberi amazzonici verranno lasciati al solo uso indigeno. Nel 1913 l’Amazzonia raggiunge il suo picco produttivo della gomma con 67 mila tonnellate. Poi la fine.
La rivoluzione del capitalismo
Dal 1912 al 1967 gli anni bui in cui Manaus diventa un fantasma coloniale: le galline fanno il loro ingresso trionfale nel teatro dell’Opera e i pipistrelli si appropriano dei palazzi signorili. Ma nel 1967, per controllare meglio eventuali focolai di dissenso e di ribellioni indigene e per tentare di nuovo la fortuna, la spietata giunta militare al governo del Brasile crea la Zona Franca di Manaus, la seconda illusione del capitalismo, stavolta industriale, per l’Amazzonia. Grazie alla defiscalizzazione e alle agevolazioni si insediano industrie straniere (Honda, Sony) e la città si ripopola, dando luogo a un distretto produttivo industriale nel cuore della foresta. Fino al 2000 la crescita è significativa, ma da quel momento diventa impetuosa: ogni anno la città si popola di 50 mila nuove unità, fino ad arrivare ai due milioni attuali. Mezzo milione di persone trova impiego nel distretto e qui si producono quasi tutti gli elettrodomestici e i televisori del Brasile, per non dire degli smartphone e delle motociclette.
I volumi economici e la foresta che arretra
Manaus genera 20 miliardi di dollari di economia all’anno, dal suo nuovo porto industriale, diventato un hub, parte il 60% di componenti elettroniche destinate a Cina e Usa e i traffici incrementeranno del 30% entro i prossimi cinque anni. Ma tutto questo ha un prezzo ambientale e sociale pesantissimo. L’isolamento geografico (la città si trova a 1.600 km dal mare e a 3.000 da San Paolo) obbliga a costi economici e traffici inquinanti; l’energia proviene per il 60% dal gasolio e per il 40% dalla diga di Balbina che, oltre ad aver avuto un costo ambientale e sociale terribile, con più di 2.000 kmq allagati di foresta, è straordinariamente poco efficiente, avendo installati solo 250 MW. Ogni giorno le acque del Rio Negro ricevono 1.200 tonnellate di scarichi di metalli pesanti non trattati. L’industria consuma 50 milioni di litri di acqua al giorno e li restituisce scarsamente depurati al fiume.
E non è più vero che l’industrializzazione risparmia la foresta dal consumo di suolo a scopo agricolo o pastorale: negli ultimi 20 anni 440 kmq di foresta sono spariti per fare spazio alla città e sono state distrutte preziose zone umide e paludi. Per usi civili si consumano 500 milioni di litri di acqua per giorno e i rifiuti urbani assommano al doppio rispetto al resto della nazione (1,8 kg/persona/giorno). L’effetto di riscaldamento urbano è qui a +2,3°C. Le conseguenze sociali sono micidiali: 400 mila persone vivono nelle favelas e si ammalano più spesso, le condizioni di lavoro sono terribili e la vita costa il 25% in più della media brasiliana. Gli omicidi sono 42 ogni 100 mila abitanti contro una media brasiliana di 32, facendo di Manaus la città più pericolosa del Brasile e una delle più pericolose del mondo. La seconda illusione dell’Amazzonia è al capolinea. Probabilmente sarà l’ultima.