La Stampa, 9 giugno 2025
Trump svolta autoritaria
Un presidente che manda la Guardia Nazionale a reprimere le proteste locali a Los Angeles non agisce come un uomo che crede nella democrazia. Eppure, è precisamente questo che ha fatto Donald Trump: ha dispiegato le truppe federali, malgrado le proteste delle autorità della California. Un segretario della Difesa che minaccia di mandare i Marines nelle città americane è ancora più allarmante. L’esercito degli Stati Uniti non è concepito per fermare i pacifici cittadini che esercitano i loro diritti sanciti dal Primo emendamento.
Le azioni di Trump altro non sono che una dimostrazione di forza nella sua controversa campagna volta a deportare 11 milioni di lavoratori senza documenti. Rappresentano anche un’escalation nella sua battaglia politica contro la California, roccaforte democratica governata da Gavin Newsom, un politico carismatico che ci sa fare con i media e che potrebbe essere il candidato democratico per le elezioni del 2028 della Casa Bianca. Quella in corso non è soltanto una vicenda legata all’applicazione della legge, ma un’intensa campagna politica travestita da questione di ordine pubblico e supportata da un intenzionale uso improprio dell’esercito americano.
Il ricorso ai soldati contro i civili per applicare la politica immigratoria riflette una preoccupante svolta autoritaria. Basta chiedere al generale Mark Milley, l’ex presidente del Joint Chiefs of Staff. Il 1° giugno 2020 i soldati federali sgomberarono pacifici manifestanti da Lafayette Square a Washington D.C. con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. L’obiettivo era preparare il terreno per l’allora presidente Trump, così che potesse mettere in scena una foto nella quale ha posato con una Bibbia in mano di fronte alla chiesa episcopale di St. John. Milley è stato visto camminare con l’uniforme da combattimento accanto al presidente, in quella che secondo molti fu un’esibizione di sostegno militare alla repressione di Trump del dissenso della popolazione civile. In seguito, Milley ha chiesto scusa con queste parole: «Non avrei dovuto trovarmi lì. La mia presenza in quel momento e in quella circostanza ha dato l’impressione che l’esercito fosse coinvolto nella politica interna».
Va detto che Trump si è rifiutato di chiamare la Guardia Nazionale il 6 gennaio 2021, il giorno in cui ha istigato un’insurrezione contro il governo degli Usa. La contraddizione la dice lunga. Quel giorno – mentre i rivoltosi facevano irruzione in Campidoglio – perfino il vicepresidente Mike Pence ha chiesto l’intervento della Guardia Nazionale. Trump non ha fatto nulla. Ha resistito e ha ritardato il dispiegamento delle guardie per ore, rendendo possibili di fatto gli episodi di violenza.
Sabato, invece, Trump non ha esitato. Ha chiamato la Guardia Nazionale, una forza militare di riservisti che di norma è sotto il controllo dei governatori statali. La Guardia Nazionale può essere centralizzata, permettendo così al presidente di scavalcare le autorità di uno Stato in circostanze eccezionali come un’insurrezione o una ribellione. Tale federalizzazione, tuttavia, è rara e controversa, perché può diventare un’arma politica. Come sembra essere nel caso di Trump. Le sue azioni in California rientrano nell’ambito di una strategia molto più vasta finalizzata a castigare i nemici politici e consolidare il suo controllo. Trump disprezza Gavin Newsom per molti motivi: Newsom rappresenta l’America progressista e liberal, governa uno Stato che sfida Trump su questioni legate all’ambiente e all’immigrazione, ed è un astro nascente del Partito democratico. Trump ha minacciato di togliere aiuti federali alla California per miliardi di dollari, nonostante questo Stato paghi in tasse federali più di quello che riceve e di fatto sovvenzioni gli Stati a guida repubblicana.
L’ultima tattica di Donald Trump è iniziata venerdì scorso, con un’ondata di raid dell’Ice – l’Immigration and Customs Enforcement facente parte del Dipartimento della Sicurezza interna – nei centri commerciali e negli uffici della contea di Los Angeles per arrestare i lavoratori senza documenti. Costoro non sono “clandestini": si tratta di residenti a lungo termine – alcuni vivono in America da vent’anni – che hanno un lavoro, pagano le tasse, hanno famiglia. Lavapiatti, addetti alle pulizie dei servizi igienici, camerieri, raccoglitori di frutta, commessi nei negozi, operai nelle fabbriche: per svariati decenni i lavoratori senza documenti con occupazioni a basso salario hanno costruito in sordina l’economia americana. Trump adesso li definisce criminali, malgrado siano integrati in ogni comunità. Gli ultimi raid dell’Ice e il dispiegamento di soldati non sono soltanto gesti brutali, ma fanno varcare una soglia pericolosa: il ricorso alla potenza dell’esercito per soffocare le proteste contro l’esecutivo politico. Non si tratta di far intervenire le forze dell’ordine contro gli immigrati: questa è una repressione simbolica, concepita per ostentare il potere e intimidire il dissenso.
Sabato le proteste si sono allargate al centro di Los Angeles, Compton e Paramount. I manifestanti hanno acceso roghi, eretto barricate, cantato “No human being is illegal” e mostrato cartelli per proclamare la loro solidarietà. Un’auto è stata data alle fiamme. La protesta è diventata multiculturale, ha visto intervenire lavoratori senza documenti, studenti, il clero, i sindacati e gli abitanti di Los Angeles. Sabato sera Trump ha firmato un ordine esecutivo per dispiegare duemila guardie nazionali a Los Angeles, assumendo di fatto il comando militare e scavalcando le guardie dello Stato della California, giustificandone l’intervento come indispensabile per soffocare una cosiddetta «rivolta contro l’autorità del governo degli Stati Uniti». Il segretario della Difesa Pete Hegseth ha minacciato di mettere «in allerta rossa» i Marines in servizio attivo presso Camp Pendleton e di farli intervenire.
Il governatore della California, Gavin Newsom, ha definito la mossa del presidente «incendiaria di proposito» e «squilibrata», ha detto che non c’era bisogno dell’intervento delle forze dell’ordine e che dispiegare le truppe federali serve «soltanto a fare spettacolo». Newsom ha ragione. Tutto questo rientra nel copione del reality show di Trump, solo che in questo caso le vittime sono lavoratori ispanico-americani della classe operaia che pagano le tasse.
Quando lo Stato scaglia l’esercito contro i suoi cittadini, diventa immaginabile una “guerra civile a bassa intensità”, sporadica, urbana, straziante. Il tessuto della democrazia americana potrebbe lacerarsi. Il Paese rischia un conflitto a lenta combustione, nel quale gli scontri potrebbero esplodere per le strade, nei centri commerciali, nelle sedi dei sindacati e nelle fabbriche. Trump ha superato una linea rossa? Forse. Il problema con Trump è che nulla può essere escluso. Ama gettare la benzina sul fuoco. Ama le provocazioni. È un narcisista vendicativo che sembra perfino trarre soddisfazione dal calpestare le norme democratiche.