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 2025  giugno 09 Lunedì calendario

Israele, esercito a corto di soldati: al fronte vanno le donne

Il numero di donne nelle forze armate israeliane cresce più in fretta di quello degli uomini. E nelle unità di combattimento, oggi, un militare su 5 appartiene alla popolazione femminile. La percentuale continua a salire, trascinata dall’urgenza della guerra più lunga mai combattuta da Israele. «Abbiamo bisogno di tutti», dicono i vertici dell’Idf, l’esercito con la Stella di Davide. Il risultato è una rivoluzione silenziosa: donne al fronte, donne nei cieli, donne a trapanare blocchi di detriti per recuperare i corpi dei caduti tra le macerie di Khan Younis, a Gaza. E poi in Siria, sul Golan e oltre, in Libano e in Cisgiordania.
Donne, anche, nei centri di comando. Non è una semplice questione di numeri. È una trasformazione culturale e strategico-militare. Le israeliane stanno cambiando il volto della guerra. Combattono sempre di più, sempre più avanti. Già venivano chiamate a una leva di due anni, non poco rispetto ai tre degli uomini. Oggi, sono il 21,9% delle unità di combattimento. Erano il 14% prima del 7 ottobre, e il 7% nel 2015. In dieci anni, si sono triplicate.

I PROGETTI
Lo spiega bene un reportage del Wall Street Journal. Il dato più significativo è che non si tratta solo di volontarie, rientrano in una pianificazione. Perché Israele ha bisogno di braccia armate. Donne, uomini, ultraortodossi. «La guerra lunga impone scelte nuove», spiega Jacob Stoil, docente alla Modern War Institute di West Point. «Quando si mettono le donne in prima linea, le ragioni sono tre: ideologia, uguaglianza e necessità. In Israele oggi operano tutte e tre. Ma è la necessità a dettare il ritmo». Le cifre parlano da sole. Oltre 4.500 servono nei reparti combattenti. La maggior parte sono volontarie, ma l’offerta si è ampliata. L’esercito ha allentato vincoli prima rigidi. Il 90% delle posizioni nell’Idf non ha limitazioni di genere. Più del 50% delle unità più esposte ammette ufficialmente personale femminile.
Sul terreno si moltiplicano i progetti pilota. A Gaza, le donne scavano sotto il fuoco. Fanno parte delle squadre di ricerca e salvataggio impiegate in profondità urbana, accanto ai commando, anche in prima linea. «Mai avrei pensato di poter guidare una squadra del genere nella Striscia», dice una ragazza di 25 anni con i galloni da maggiore. «Ora non mi vedo da nessun’altra parte che qui».
La sua unità, prima destinata a compiti di sicurezza in Cisgiordania, è adesso in prima linea. In agosto si formerà una nuova compagnia. Il 70% di questa forza speciale è composto da donne. Emblematica la storia che è diventata leggenda, del battaglione Caracal. Nato per pattugliare il confine con l’Egitto, il 7 ottobre tre suoi equipaggi interamente femminili hanno attraversato il deserto e sbarrato il passo a una colonna di guerriglieri di Hamas che tentava di raggiungere il Negev per unirsi alla mattanza. «Noi eravamo tagliate fuori in tre carri, abbiamo combattuto tutta la mattinata», racconta una di loro. «Eravamo solo noi. Nessuno ci ha salvate. Ci siamo salvate da sole». Il capo di Stato Maggiore dell’epoca, Herzi Halevi, l’ha citata come «risposta vivente a chi dubita delle donne in combattimento». E da lì l’impiego è cambiato.
Le donne sono entrate sempre più nei plotoni di mobilità delle brigate di fanteria, nelle unità della Marina, nei reparti di élite cinofili Oketz, nelle postazioni radar, nei sistemi Iron Dome, o come personale operativo di frontiera del Mossad. Alcune interrogano i sospetti militanti in Siria e Libano. Altre sono piloti, ufficiali dell’intelligence, o anche esperte di cyberwarfare. Ma l’integrazione resta incompleta, e al di là dell’emergenza bellica, risponde a un’istanza laica di parità di genere cara a Israele. È parzialmente fallito il progetto di inserimento nelle brigate Golani e Paracadutisti: 23 reclute con un tasso d’infortuni alto e standard fisici “non adeguato”. I problemi non solo fisiologici, ma materiali. Le uniformi non sono disegnate per i corpi femminili.

LA QUESTIONE RELIGIOSA
Mancano taglie adatte, protezioni toraciche, scarponi ergonomici. E allora dolori, infiammazioni, una maggiore esposizione a infortuni. O a rischi peggiori. Perché in guerra la cattura di una donna soldato può significare «tortura, stupro, umiliazione sistematica», dice un medico militare a The Times of Israel. «È un prezzo di vulnerabilità che esiste e non va ignorato».
E c’è la questione religiosa. La presenza di donne in unità miste resta un ostacolo per l’arruolamento degli haredim, gli ebrei ultraortodossi. Su questo punto il fronte politico è incandescente. Secondo il ministero della Difesa, il 72% degli haredim chiamati al servizio di leva nei primi tre mesi del 2025 non si è presentato. Più del 64% registrato nel 2023. Eppure, nelle stesse comunità cresce la partecipazione femminile: oltre 1.000 le donne religiose che hanno scelto di arruolarsi dall’inizio della guerra, spesso con il sostegno silenzioso delle famiglie.
Il tasso di abbandono (15%) è equivalente a quello degli uomini (14%). «Voglio difendere il mio Paese. Non ho bisogno di essere trattata da uomo, ma di essere utile», dice Shira, 22 anni, sergente dell’aeronautica nel sud. «Niente di ideologico. Ma di giusto e inevitabile». La lunga guerra stravolge gli equilibri. Le donne non sono un’aggiunta ma una componente decisiva. Il nemico non distingue più. L’Idf, sempre meno.