Sette, 7 giugno 2025
Simone Moro: «Uno sherpa mi aggredì a picconate, poteva uccidermi, tempo dopo ci abbracciammo. Per scalare un ottomila i turisti spendono fino a 150.000 euro»
«Buongiorno Simone, tutto bene? Come va in Nepal? Sei pronto per l’intervista?». La linea è poco chiara, si ode un forte rumore di sottofondo, interferenze. «Ora no, sto volando in elicottero per un soccorso al secondo campo dell’Everest, devo chiudere». Perfettamente in tono col personaggio. Meno di ventiquattro ore dopo Simone Moro risponde al telefono da Lukla: quasi 3.000 metri d’altezza, un aeroporto, il villaggio di partenza per la salita al campo base dell’Everest.
Da lui sono le nove di sera, ha la tosse secca di chi sale di quota troppo in fretta. «Sono già nel sacco a pelo, domattina mi alzo alle quattro», dice quasi per scusarsi, sono due giorni che cerco di raggiungerlo. Ma in queste settimane è complicato, siamo nel pieno della stagione delle spedizioni commerciali al Tetto del Mondo e lui è impegnato a tempo pieno col suo servizio di elisoccorso alpino. Le medie, da dopo la chiusura per il Covid, sono di oltre mille persone all’anno, per lo più tra maggio e giugno, che cercano di raggiungere gli 8.848 metri della cima. Racconta di avere appena riportato a valle un cliente che si sentiva «molto male».
A 57 anni Simone è una figura di riferimento negli ambienti dell’alpinismo internazionale: ha salito 8 dei 14 ottomila della Terra e 4 li ha raggiunti per primo in pieno inverno. Soprattutto, ama e sostiene il Nepal, è diventato la sua seconda casa. Ne scrive nel suo nuovo libro Gli Ottomila al chiodo, Rizzoli, che non è solo uno spicchio di cronache dell’alpinismo extraeuropeo degli ultimi decenni, ma vorrebbe anche riflettere sul destino dello «spirito d’avventura», del girovagare in libertà per le cime in un mondo «post-eroico» dominato dai social globalizzati, «che tutto consumano veloci e alla fine dimenticano».
Denunci le limitazioni che Nepal e Cina impongono a chi frequenta le loro montagne. Non si può partire senza pagare una guida, occorrono permessi e certificati medici, obbligano all’utilizzo dell’ossigeno, vietano le solitarie. Le tue parole: «Se queste regole fossero esistite quattro decadi fa, Reinhold Messner non avrebbe mai raggiunto il suo record di primo salitore di tutti gli Ottomila senza ossigeno». È la fine dell’alpinismo?
«Ormai l’alpinismo primaverile degli Ottomila è diventato appannaggio dell’industria turistica, che porta la gente in cima a pagamento, e dunque non sono contemplate attività alpinistiche tradizionali, anche se non sono ufficialmente proibite. Questo vale su 9 cime delle 14, perché 5 si trovano in Pakistan, dove c’è molta più libertà. Dunque: su Annapurna, Everest, Lhotse, Dhaulagiri, Makalu, Manaslu, Cho Oyu e Kanchenjunga (salendo dal versante nepalese) e su Shishapangma e ancora Cho Oyu e Everest (salendo dal versante tibetano) gli alpinisti tradizionali soffrono di forti limitazioni. I clienti delle spedizioni commerciali vengono invece accompagnati da guide e portatori locali, che io definisco baby-sitter delle vette. Quasi tutti non hanno alcuna cultura alpinistica, non sanno usare picozza e ramponi, non hanno alcuna idea del posto dove si trovano».
Talvolta salgono sui tuoi elicotteri...
«Pagano, spendono da 100.000 a 150.000 euro a vetta. Spesso acquistano i pacchetti vip, che permettono loro di salire più cime nel tempo. Al campo base fanno loro un minimo corso d’alpinismo e via, partono assieme a due o tre sherpa a testa, che si caricano tutto sulle spalle per loro, comprese le bombole per l’ossigeno. Gli sherpa posizionano le corde fisse, cucinano, portano tende e sacchi a pelo. Attenzione, questi turisti non fanno nulla di male, però la cima è monopolio delle compagnie che li amministrano».
E nelle altre stagioni?
«Tranne il Manaslu, che viene salito anche in autunno, le altre cime per il resto dell’anno ridiventano deserte, selvagge, spopolate. Ecco allora il valore delle salite invernali, quando la montagna torna agli alpinisti “classici”. Il compromesso potrebbe funzionare. Però, adesso la Cina non rilascia permessi per le invernali».
Il motivo?
«Spiegano che la montagna d’inverno è pericolosa. Come dire: non ti faccio più fare paracadutismo oppure andare sott’acqua con le bombole, perché rischi troppo. In Nepal invece dicono che devi avere una guida».
Obbligatorio?
«Formalmente sì. Anche se aggirare l’ostacolo si può sempre: paghi la guida e lei se ne sta al campo base. Ma resta il fatto che devi continuamente trovare dei sotterfugi contro regole che limitano la libertà dell’alpinismo. Tuttavia, quelli che Messner chiama “alpinisti della pista” non concepiscono modi diversi di salire. Spesso mi chiedono se la mia scelta di andare d’inverno e senza ossigeno sia per ragioni economiche, come se dovessi risparmiare. In realtà, non sanno nulla, non conoscono le figure dell’alpinismo classico. Walter Bonatti, Riccardo Cassin, Paul Preuss, George Mallory, Chris Bonington, tanto per citare qualche nome celebre, sono per loro del tutto sconosciuti. Messner lo conoscono perché ispira la loro scelta di acquistare in anticipo il pacchetto di tutti i 14 ottomila in tre o quattro anni. Non sanno che il K2 è in Pakistan, o dove siano le altre cime. Lo vedo, perché quando li porto in elicottero non hanno la più pallida idea dei luoghi che sorvoliamo».
Dunque, a loro va bene così?
«Certo. Ecco perché non me la prendo troppo con le istituzioni. Sono gli stessi fruitori di questi servizi che non saprebbero fare diversamente. Le leggi si sono adattate alla nuova realtà. È come partecipare a un safari in Africa: ti portano in jeep nella riserva a vedere il leone, tu fai le foto e torni a casa tutto contento di mostrarle in famiglia».
Da quanto tempo le cose stanno così?
«Dal 1992 sono venuto 120 volte in Nepal, il fenomeno del turismo di massa in alta quota è esploso negli ultimi 15-20 anni».
E l’avventura?
«Direi che dovrebbe crescere lo stimolo a esplorare montagne minori. L’alpinismo di ricerca, le prime salite del futuro riguardano cime di 5-6-7.000 metri, tutte da scoprire».
Lo diceva già Messner decenni fa…
«Assolutamente sì».
Però non credi che negli ultimi decenni l’idea che il mondo non sia più un luogo da “conquistare”, senza confini, come pensavamo una volta, bensì un ecosistema fragile e in pericolo, abbia indebolito il fascino dell’alpinismo?
«Concordo, per vari motivi. In primo luogo oggi mancano bravi narratori che sappiano affascinare il grande pubblico. Bonatti era carismatico e così Messner. Personaggi anche controversi, polemici, magari antipatici, che però uscivano dalla piccola cerchia degli appassionati e raggiungevano l’opinione pubblica nazionale o addirittura mondiale. In concomitanza c’è il fatto che oggi è difficilissimo impressionare. La comunicazione globale, le immagini che vediamo di continuo sui nostri smartphone, per esempio adesso i video terribili della guerra a Gaza o in Ucraina, ci inseguono notte e giorno con notizie estreme. Ovvio che allora la narrazione ritardata di un’avventura in un angolo anche remoto di mondo abbia un impatto molto minore rispetto a pochi decenni fa. L’ammirazione per l’alpinista che scende dalla cima con le mani scorticate e il viso cotto dal sole non c’è più».
Dunque?
«La grande sfida è riuscire a raccontare viaggi in luoghi remoti di montagna. Per esempio i gruppi dell’Afghanistan dopo la presa talebana di Kabul nel 2021. Sfiorano i 7.000 metri di quota, ma c’è tutto un mondo da esplorare. Ecco il modo per rendere l’alpinismo un poco più interessante. In parallelo è del tutto legittimo pensare invece di farsi la propria salita in santa pace, senza alcun fracasso o ansia di notorietà. Resta il fatto che i social sono gonfi di veleno, gente che critica senza sapere. Se io scrivo sul web che ho camminato nel mistero affascinante di una valle secondaria e spopolata del massiccio del Kanchenjunga subito raccoglierò il commento polemico sul ghiacciaio che si scioglie e la mia responsabilità nell’inquinamento. C’è la tendenza a colpevolizzare l’entusiasmo di ogni azione fuori dalla norma. Mi dicono: vai perché hai lo sponsor, non lavori, voli in aereo e inquini. Se vado in elicottero a salvare un alpinista affetto da edema celebrale, due mi scrivono che sono bravo e cinquanta commentano invece che salvo quegli stupidi che contribuiscono a sporcare».
Come uscirne?
«Resto ottimista. Ancora penso che il turismo delle vette abbia salvato l’economia del Nepal. E comunque c’è spazio per tutti, con ancora mille valli e cime da salire».
Però dobbiamo ammettere che il tuo Nepal non ti ha trattato bene. Nel 2013 un gruppo di portatori locali ha attaccato a colpi di picozza te i tuoi compagni perché salivate al campo 3 dell’Everest in modo indipendente, senza appoggiarvi alla loro organizazzione e anzi dimostrando che è possibile farne a meno. Nel libro tu stesso scrivi: «Rischiavano di ucciderci». Qualche tempo dopo ti hanno revocato la licenza di volo sostanzialmente per motivi simili e tu hai perso un mucchio di tempo per ottenere nuovamente il permesso di condurre il tuo elicottero. Ingratitudine, gelosia?
«Del primo incidente ha parlato tanto la stampa americana. Comunque, poi sono riuscito a rappacificarmi. Qualche tempo dopo l’aggressione degli sherpa mi è capitato di essere chiamato per un soccorso difficile in alta quota. E ho scoperto che il ferito era proprio uno dei miei aggressori. Ci siamo riconosciuti subito e ha voluto abbracciarmi. La stessa cosa per la vicenda dalla licenza. Quando ho lanciato il mio progetto con l’elicottero 15 anni fa in Nepal c’erano solo 3 società che volavano, 6 o 7 elicotteri per 30 milioni di abitanti. Naturalmente gli stranieri potevano pagarselo, i nepalesi no. Così ho iniziato a combinare voli già pagati dai turisti di cui però potevano approfittare i locali che ne avevano bisogno. Hanno visto che fruttava e oggi le società sono 13».
Alla fine hai accettato di fare parte della catena delle spedizioni commerciali?
«Penso che il turismo delle cime possa convivere con l’alpinismo tradizionale. Uno non esclude l’altro. Ed è facile criticare lo sviluppo del Nepal standosene sul divano. Mi sento parte del sistema che ha contribuito a migliorare la vita del Paese».
Perché Ottomila al chiodo, stai andando in pensione?
«Il titolo può essere letto come se stessi abbandonando, ma anche come la volontà di esaminare la questione con calma. In questo libro cerco di ragionare su temi che sono nell’aria: guardare in faccia l’alpinismo e spingerlo a pensarsi».