il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2025
Intervista a Massimiliano Fuksas
Più maestro o professore?
Massimiliano.
Archistar.
Questa la odio.
Come mai?
Non vuol dire nulla.
Siete delle star.
(Pausa) Che vuole sapere?
Perché un’autobiografia?
Stavo perdendo la memoria.
Ahi.
Non per una patologia, ma un giorno mi sono domandato a chi potevo chiedere qualcosa della mia famiglia, qualcosa del passato e mi sono reso conto che sono tutti morti. Allora ho scritto quello che ho ricordato.
(Massimiliano Fuksas ci accoglie in uno dei suoi uffici. Ha sul tavolo rotoli di disegni, computer acceso, due collaboratori attenti a tradurre delle sue indicazioni. In inglese. Niente aria condizionata. Ha da poco pubblicato un’autobiografia bella, intensa, sorprendente. Con dentro una storia famigliare incredibile, con intrecci così fitti e vari da rendere impossibile un albero genealogico fondato. E poi il ’68, la lotta, la politica, gli incontri più alti, da Che Guevara a Shimon Peres e Arafat. Le partite a pallone con Pasolini, Bernardo Bertolucci come compagno di scuola, o Giorgio De Chirico maestro di pittura. Lui è nato nel 1944 quando costruire, ricostruire e crederci era necessità. S’intitola “È stato un caso”. E sembra dominare pure il caso)
Si è commosso nel ricordare e scrivere?
Quando lo rileggo, piango. Anzi accade anche se qualcuno lo legge a me.
Cosa, in particolare?
Non lo voglio dire.
Insistiamo.
Pure il fatto che a mia madre non ho mai chiesto nulla.
E se le chiedono?
Sono senza freni.
Nel libro sembra uno dei protagonisti di La meglio gioventù.
Quel film nasce dalle nostre esperienze, dalla nostra realtà. Ma nel libro c’è un errore.
Sveliamolo.
All’inizio indico due motivi rispetto ai quali la morte di mio padre, quando avevo solo sei anni, ha avuto risvolti positivi sulla mia vita; in realtà ne affronto uno solo: il potere.
Si definisce “immune al potere”.
Appunto, grazie a mio padre: morto lui l’ho risolto, perché il padre rappresenta il potere. Sono diventato immune.
L’altro?
Niente Complesso di Edipo: sono libero di amare le donne, perché mamma era per me.
Sua figlia Elisa sostiene che lei “lavora come una bestia”.
Solo questi li ho realizzati oggi (e srotola metri di disegni).
Il tempo libero come lo occupa?
Che è?
Fuori dal lavoro.
Il lavoro è il mio tempo libero; (pausa) vuole l’aria condizionata?
No, grazie
Non la sopporto, neanche in macchina; ma ho un autista, unico vantaggio della mia vita…
Non guida?
Sì, benissimo.
Si siede davanti o dietro?
Davanti, ed è una delle forme più raffinate di vivere.
Come Gianni Agnelli.
Io lo chiamo parcheggiatore: la macchina la guido io, poi scendo e lui la sistema.
Le dà del tu o del lei?
Del lei. Alcuni hanno difficoltà con il tu.
Lei genera timore.
Distacco.
Le piace?
Non mi interessa.
Al ristorante lascia la mancia?
Tantissima.
Per sensi di colpa?
Secondo mia moglie mi devo far perdonare di come li tratto.
È un uomo brusco.
Sono perennemente in difesa.
Da cosa?
Da quando sono nato.
Sembra uno all’attacco.
Ha letto com’è stata la mia vita sin dall’inizio?
Ha ribaltato tutto.
Ho capito che dal male nasce il bene, dal grande male un grande bene.
Nel libro è quasi un Forrest Gump: ha incontrato chiunque.
Più di quelli che ho scritto.
Di Pasolini sostiene: “Aveva deciso di morire”.
Cercava una morte da Cristo, eclatante; ricordo un dibattito, alla Casa della Cultura, con lui, Moravia e Siciliano; Moravia e Siciliano dei marpioni, non lo lasciavano parlare, neanche se le domande erano per Pasolini. Io intervenni: “Fatelo rispondere!”. E Pasolini, timido: “Tanto ci sono loro”.
Vi conoscevate.
Grazie a Bertolucci, frequentava casa sua, ma non ci considerava, preferiva persone come Ninetto Davoli o Franco Citti.
Giocavate con lui a calcio.
Ed era velocissimo.
(dalla vetrata cascano due gigantografie con immagini di alcuni dei suoi progetti realizzati); quello è in Cina, poi Albania, Romania…
Si è mai preoccupato del committente?
Mi interessa solo se impedisce di realizzare le mie idee.
Se un regime chiama, lei va?
Il regime non esiste.
Se bin Salman…
Ci abbiamo lavorato e ci lavoriamo; il regime non esiste, sono tutti regimi. Però il problema me lo sono posto.
E… ?
La Rivoluzione Francese, per duecento anni, ha portato avanti una specie di democrazia, ha costruito la piccola borghesia, ma dopo duecento anni siamo tornati come al Medioevo.
Conta più il potere o i soldi?
Berlusconi è stato il primo a mettere insieme le due cose.
Non gli ha stretto la mano.
No, mia madre lo ha vietato.
A chi altro non l’ha stretta?
Di solito ai fascisti; (pausa) neanche, perché Gianni Alemanno non mi è antipatico, infatti lo hanno messo in galera; (sorride) pure Formigoni mi sta simpatico, pure lui dentro.
Da ragazzo si è cimentato in varie scazzottate.
No, ma suscitavo paura.
Nel libro racconta che le è successo.
Qualche volta, con la polizia. Abbiamo lanciato qualche pietrona, come a Valle Giulia.
Non parla di droga.
Mai fumato in vita mia.
Gli altri, sì.
Tutti e mi hanno offerto di tutto anche il tè con la marijuana.
Si è salvato.
Temevo di perdere il controllo. Stavo in guerra con il mondo.
La guerra l’ha risolta?
Hanno vinto loro.
Quando l’ha capito?
Mentre scrivevo il libro.
Perché?
Si continua a perpetrare un sistema che mette insieme potere e soldi, come nel Medioevo.
Da che parte sta?
Con i più poveri, con gli umili, come papa Francesco.
Quando ha sentito che il potere la voleva irretire?
Tantissime volte, non lo capisco io, ma il mio subconscio. Che mi obbliga ad allontanarmi.
Un esempio.
Già dai tempi dell’università quando stavo per diventare professore: mi avevano chiamato, un buon posto e uno stipendio, io che non avevo nulla.
Invece?
Ho scritto una lettera lunghissima al direttore dell’istituto, lettera che non avrà mai letto nessuno. Volevo essere libero.
A quel punto?
Ho aperto uno studio.
I servizi segreti si sono occupati di lei?
(Silenzio, poi cambia espressione) Sì. A partire da quelli statunitensi.
Quando?
Nel maggio del ’68 sono partito per Parigi, in macchina. Al ritorno, dopo alcune manifestazioni, vedo sul giornale la foto di un tizio armato di bastone e nella didascalia era riportato il mio nome. Il tizio aveva i baffi, io no. A quel punto mi contatta la polizia e per scagionarmi cerco di spiegare l’incongruenza. Niente. Allora vado all’Associated Press, sapevo che nel loro archivio avevano altri scatti dello stesso periodo, con me all’interno. E loro: “Non li abbiamo più, sono stati inviati a Washington”.
I servizi segreti italiani?
Hanno provato ad avvicinarmi, ma niente.
Massoneria?
Può essere. Ma non me ne sono mai accorto.
Quando ha capito di essere un leader?
Mai.
Lei è un leader.
Non lo so.
Quanti dipendenti ha?
Tanti, solo in questo palazzo ho quattro piani.
Più altri nel mondo.
In Cina ne ho aperto pure un altro.
Ripetiamo: è un leader.
Faccio delle cose.
Ha una crisi “morettiana”.
La vita è questa. Poi finisce tutto, basta, si chiude. Legga l’ultima pagina… (chi scrive va in “crisi”: non ha portato gli occhiali da vista) Sa perché non vede? Perché usa gli occhiali. Io li porto?
No.
Eppure disegno, leggo. A 50 anni ho perso 0,75, ma non mi sono arreso.
E quando ha perso i capelli?
Non mi è mai importato.
Vanitoso, lo è?
Zero. Però venga a vedere le foto di quando ero giovane (una delle sue collaboratrici apre una vasta cartella di scatti. Anzi, vastissima. Nell’attesa continuiamo con le domande).
Nel libro parla, di De Chirico. Ha lavorato per lui.
Uomo molto divertente e generoso: un giorno si presenta un signore, povero, con in mano una brutta copia dei suoi quadri. “Maestro, questo è suo?”. Lui lo guarda, poi risponde “sì”. E lo firma. Per De Chirico preparavo i supporti (si apre il file con le foto: ci sono Arafat, Peres, Kounellis… Torniamo nella sua stanza)
Dario Fo sosteneva…
(Immediato) Lui disegnava male.
Davvero?
Un giorno mi chiama: “Vuoi fare l’assessore all’urbanistica di Milano?”. “No”. “E dai, sostieni la mia candidatura a sindaco”. Vado a casa loro, suono, mi apre Franca Rame: e mentre parliamo disegna. Male. Il suo sogno era diventare architetto; (resta zitto) mentre Fellini era bravissimo, aveva un bel tratto.
Verità o leggenda: lei ha tirato una grattugia in faccia a Bertolaso.
La rissa c’è stata, ma non così come raccontano.
Sveliamo.
Ero in pizzeria con mia moglie, una nostra amica e un amico medico di estrema sinistra. Quel giorno la destra aveva vinto le elezioni regionali. Vicino a noi c’era una tavolata da generone romano, dei fascisti. Questi parlavano (e fa il verso da tronfi). Doriana a un certo punto vede arrivare Bertolaso. Si siede a quella tavolata. E sempre Doriana, guardando noi, lo apostrofa con definizioni abbastanza dure.
Eccola là…
Gli altri della tavolata non vedevano l’ora di attaccarci, così ho capito qual era la situazione e come bisognava reagire; (pausa) forte della mia esperienza…
Di manifestante?
No, di giovane italiano in Paesi come la Danimarca o la Germania: allora rischiavi la pelle.
Come Nino Manfredi, biondo, in Pane e cioccolata.
La situazione era quella.
Torniamo alla rissa.
Accade di tutto e vedo Bertolaso, spaventato, che si nasconde sotto il tavolo.
Eroico.
So per esperienza che quando c’è una rissa devi reagire subito, così spaventi. Allora ho afferrato tutto quello che ho trovato sul tavolo e l’ho lanciato. Poi ho mollato un papagno a un tipo.
Sua moglie?
Anche lei e l’amica lanciavano.
È proprio sua moglie.
È antifascista.
Come coglie dagli altri la genialità.
Mi piace la gente che mi dice cose inattese. Che mi sorprende. Che mi fa pensare.
Uno come lei lo prenderebbe?
No.
Nel libro non c’è molta autocritica.
Però neanche parlo bene di me.
Ne è sicuro?
Sì, c’è una posizione di difesa.
Ha mai tradito se stesso?
Mai.
Quando guarda l’orrore di Gaza, cosa pensa?
Che è avvenuto il contrario di quello che avevamo previsto; un giorno sono nell’ufficio di Shimon Peres e mi chiede: “Perché questo progetto lo vuoi realizzare tutto in vetro, rivolto al mare?”. “Perché nel momento in cui si vede qualcuno che arriva in barca, senza bandiera, lo accoglie”.
Di cosa non vorrà mai perdere memoria?
Dei momenti con mio padre.
Ricorda il suo odore?
Era di pulito, di sapone.
Lei chi è?
Non lo so. E non lo saprò mai.