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 2025  giugno 08 Domenica calendario

La linea Meloni: pressing su Israele ma non si può chiudere la porta

«Siamo amici di Israele, dobbiamo tenere sempre aperto il dialogo. È giusto fare pressing su Tel Aviv per fermare una guerra che ha assunto contorni inaccettabili, ma sarebbe un errore lanciare segnali di rottura, chiudere la porta». La linea di Giorgia Meloni su Israele non cambia, nessuna correzione di rotta nonostante l’onda pro-Pal che ieri, incurante del caldo, si è riversata a piazza San Giovanni per chiedere, tra le altre cose, che il governo riconosca lo Stato della Palestina. È uno dei temi che la premier ha affrontato giovedì scorso nell’incontro di ben 4 ore con il presidente Emmanuel Macron, deciso nelle ultime settimane a compiere un passo in tal senso. «Facciamo qualcosa o di Gaza non resterà più nulla. È il momento di dare un segnale», le parole pronunciate a Palazzo Chigi dal leader francese, impegnato a coinvolgere altri Paesi, portarli dalla sua in un’azione collettiva che, oltre a essere più incisiva se corale, gli eviterebbe la fuga in avanti in solitaria, un’accelerazione che ha già mandato su tutte le furie Israele. «Capisco la posizione dell’Italia, che è poi da sempre anche la nostra: due popoli due Stati. Ma qui c’è il rischio che ne resti uno solo», ha messo in guardia il francese. Meloni, riferiscono fonti beninformate al Messaggero, avrebbe condiviso le preoccupazioni di Macron su Gaza, sulla popolazione civile martoriata dai bombardamenti e ridotta alla fame, e avrebbe chiesto all’inquilino dell’Eliseo quale fosse la posizione degli Usa sul riconoscimento dello Stato della Palestina. «Non mi stanno bloccando...», la risposta del presidente francese.
Eppure Meloni resta fermamente convinta che l’unica strada da battere è la soluzione “a due Stati” da raggiungere attraverso negoziati tra le parti. E anche Parigi, nelle ultime ore, avrebbe rallentato su una decisione che, nonostante l’anno scorso sia stata assunta da Spagna, Irlanda e Norvegia – e dalla Svezia ancor prima – sembra dividere i francesi: il 35% in un recente sondaggio si è detto apertamente contrario. Ma non è certo questo a frenare Macron, piuttosto i dubbi sollevati da diverse cancellerie su un’iniziativa che rischia di incattivire ulteriormente Tel Aviv, allontanando ancor più la pace. Anche gli inglesi sarebbero tentati di lanciare un segnale dalla forte valenza politica a Israele riconoscendo lo Stato della Palestina, ma al momento anche a Londra sembra prevalere la prudenza. Per questo alla conferenza prevista a New York dal 17 al 20 giugno, organizzata da Francia e Arabia Saudita, difficilmente si arriverà con l’annuncio formale da parte dei francesi – come da attese – ma è più probabile si proceda con l’avvio di una serie di misure preliminari, per un riconoscimento “negoziale” che passa anche dalla riforma dell’Autorità Palestinese e la fine definitiva del controllo di Hamas sulla Striscia di Gaza, riferiscono fonti diplomatiche. Del resto, «per Macron riconoscere lo Stato della Palestina è un passo enorme. È tentato dal compierlo, ma non è affatto detto sia così immediato».
Al G7 a Kananaskis, in Canada, è prevista una sessione di lavoro sulla crisi in Medio Oriente, ed è facile che il presidente francese colga la palla al balzo per sollevare la questione. «Ma con Trump al tavolo è da escludere ci possano essere accelerazioni – ragionano le stesse fonti – più probabile una frenata bella e buona».
LE RICHIESTE DELLA PIAZZA
Quanto alle altre richieste arrivate dalla piazza per Gaza, sullo stop di invio d’armi a Israele Palazzo Chigi ribadisce di «aver sospeso dal 7 ottobre ogni nuova licenza di esportazione: i contratti in essere hanno solo finalità civili, oltre ad essere passati in rassegna, caso per caso, dall’autorità competente alla Farnesina». Mentre sullo stop all’accordo di associazione Ue-Israele, dallo staff di Meloni confermano la contrarietà del governo italiano, che già a maggio scorso, in un consiglio europeo Esteri-Difesa, si era espresso contro una revisione, decisione che in ultima istanza verrà assunta da Palazzo Berlaymont. «Non siamo stati i soli, anche la Germania ha detto no», viene rimarcato con decisione. Dietro la scelta, la convinzione che «per far prevalere le ragioni della diplomazia sia necessario costruire canali di interlocuzione, reciderli sarebbe un errore. Il dialogo resta infatti la via maestra e anche i trattati internazionali sono un ponte che va tenuto in piedi per evitare che venga giù tutto».