Il Messaggero, 7 giugno 2025
Intervista a Stefania Sandrelli
Memorie: «Mio padre Otello mi aspettava in piedi vicino all’ultima rampa delle scale. Ero l’unica femmina in mezzo a sette maschi e il calore del suo abbraccio me lo ricordo ancora. Gli volavo nel petto, staccavo i piedi da terra, sognavo ad occhi aperti». Stefania Sandrelli non ha dimenticato niente e non si è fatta dimenticare. Pietrangeli, Germi, Scola, Bertolucci, Monicelli, De Oliveira, Chabrol, Benigni, Virzì, Sorrentino. Ha lavorato con i migliori e segnato un’epoca. «Sono stata e sono ancora una persona molto fortunata». Quando ride riempie la stanza. I ricordi sono immagini. Le parole, musica.
Conserva ancora un lieve accento toscano.
«D’altra parte è lì, nel centro di Viareggio, che sono nata. La casa era bellissima e piena di fiori. Mio padre, dottore in Agraria, adorava le piante. Certi profumi, come quelli delle rose in questa stagione, sono ancora con me».
Cos’altro è ancora con lei?
«Tante cose. L’esempio di mio padre, sicuramente. Viaggiavamo spesso insieme e anche se ero solo una bambina, lui in albergo prendeva regolarmente due stanze. Mi trattava come una personcina consapevole, come un’adulta».
Faceva bene?
«Benissimo. Non ho mai creduto che i bambini vadano trattati troppo come tali. Devono crescere, capire, emanciparsi in fretta».
Se pensa all’infanzia qual è la prima cosa che le viene in mente?
«Ci sono stati momenti molto tristi e momenti molto felici. La vita è così: è sempre una sorpresa, non somiglia mai a una linea piatta».
Suo padre morì quando lei aveva otto anni.
«Non lo vedevo da qualche giorno: non stava troppo bene e mia madre aveva deciso di mandarmi in campagna, da una sorella. Prima di partire papà mi aveva salutato: “Stefania, ci vediamo tra poco, quando torni troverai una bellissima biciclettina rossa”. Tornai e trovai la bicicletta. Non papà, papà non c’era più. Mia madre cercava il momento per dirmelo, ma io lo scoprii quasi per caso, dalle voci dei miei cugini. Ero vicina a una porta e li sentii parlare. Vicino al pianoforte c’era un baule, mi ci appoggiai e piansi da sola per ore. Mi è mancato Papà. Era una figura molto dolce. Non l’ho mai sentito alzare la voce».
Se dovesse descrivere la sua famiglia cosa direbbe?
«C’era allegria, c’era casino. Vivevamo in una casa enorme, tutti insieme. Figli, nipoti, fratelli: Silvano, Franco, Otello, il cuoco, Giuseppina, la cameriera. La adoravo, la chiamavo nonna e mia madre, quando andavamo al cimitero, prima di portarmi a salutare la vera nonna, mi accompagnava sempre sulla sua tomba».
Che idea aveva del cinema a quell’età?
«Io e mio fratello Sergio girammo dei piccoli cortometraggi da autodidatti. Salivamo su un colle, con la supervisione di qualche ragazzo più grande, e dopo aver usato la stagnola dei panettoni per le luci, con i super 8, ambientavamo in loco dei filmini di ispirazione molto eterogenea. C’erano le tematiche familiari, ma c’era anche Dracula. Io ero la vittima, Sergio il Vampiro. In un baule, da qualche parte, gli spezzoni devono esserci ancora».
Qual è il momento in cui le cambia la vita?
«Quando Paolo Costa, un fotografo di Le Ore, mi scatta delle foto a Viareggio a pochi passi da casa. Le Ore all’epoca non era la rivista di donnine che divenne in seguito, parlava di attualità e io mi ritrovai in copertina a mia insaputa. Mi prese un coccolone. Dissi: “Ma che è?”. Non capivo. Non era la prima volta che mi capitava di finire su un giornale. Da bambina, nelle pubblicità sul mare e il cielo azzurro di Viareggio era già successo, ma quelle foto, con quel maglioncino azzurro e quella gonna scozzese, ebbero un effetto dirompente».
Pietro Germi, quelle foto, le vide.
«Si mise in testa che la ragazzina che cercava per Divorzio all’italiana potessi essere io. Mi contattò un agente cicciotello, gentile e un po’ balbuziente, Filippo Fortini, che mi chiese di incontrarlo. Mio padre non c’era più e gli adulti della famiglia erano contrarissimi a farmi andare a Roma per provare a fare l’attrice. Una sera mi si avvicinò mio fratello Sergio: “Stefania, ti ci porto io”. E partimmo. Ci sistemammo in una pensioncina in Via Marsala. Mi sentivo protetta. Sergio è stata la mia salvezza».
In che senso?
«In tanti sensi. Non solo mi portò a Roma, ma mi trasmise l’amore per il cinema. A Viareggio, nei lunghi pomeriggi di solitudine, andavamo al cinema anche due volte al giorno. I film di Germi, per dire, li avevo visti».
Cosa significò iniziare con Germi?
«Un colpo di fortuna straordinario. Non ho fatto una scuola canonica, ma ho imparato sul set lavorando con dei grandissimi registi da cui ho imparato e assorbito lezioni che nessun corso, neanche il migliore, mi avrebbe mai potuto restituire».
Che sensazioni provava prima di incontrare Germi?
«Al provino, fuori dagli studi della De Paolis, c’erano 300 ragazzine stravolte ed ansiose. Io ero tranquillissima e non avevo nessun batticuore. Mi sentivo all’altezza. Germi era un perfezionista straordinario, curava sempre le inquadrature e in macchina, quando girava, c’era lui, il suo occhio, la sua mano».
Germi è stato uno dei più grandi registi dello scorso secolo?
«Straordinario e volutamente dimenticato per questioni politiche. Non era di destra, ma sicuramente non era neanche di sinistra. E all’epoca, per non essere bastonati, l’agnosticismo non era sufficiente».
Divorzio all’italiana ha più di sessant’anni.
«È un film perfetto che regge alla prova del tempo. È lì ed è come se l’avessi fatto ieri. Non aveva un’inquadratura in più né in meno».
Lei era minorenne e interpretava un ruolo anche emotivamente non semplice.
«Emotivamente e fisicamente. Germi mi fece ripetere alcune scene più di una volta e in quella della piazza, quando la gente mi inveisce contro, mi strattona e in alcuni casi mi tocca anche il culo, ho provato disagio. Non gradivo e nonostante fossi allenata, ero molto provata».
Allenata a cosa?
«All’esercizio fisico. Ho studiato ballo per 7 anni e in provincia, di insegnartelo si occupavano le maestre di ginnastica. La mia, Ester, una ballerina cresciuta nelle migliori scuole di Londra, era un fenomeno. Si era innamorata di un viareggino e si era trasferita lì. Senza il suo contributo a dare ciò che mi chiedeva Germi non sarei mai riuscita».
Com’era il rapporto con Germi?
«Dialettico. Per molto tempo gli ho dato del lei perché non mi sentivo all’altezza di dargli del tu. Con me all’inizio alzava la voce, poi smise. Ma gli inizi furono tumultuosi. Un paio di volte mi cazziò davanti a tutti e lo lasciai lì, a inveire, ritirandomi in roulotte. Passò un po’ di tempo e venne a chiedermi scusa».
Il set ha lunghe pause e molti momenti di stasi. Come li trascorreva?
«Andavo in giro, mangiavo gelati, acquistavo catenine, perdevo tempo. Germi mandava Renzo Marignano, il suo aiuto regista, un genovese simpaticissimo, un omone alto due metri, in avanscoperta. Renzo era un cane da caccia e io ero la preda di riportare sul set».
Germi la rimproverava?
«"C’è gente che ti aspetta” diceva “non puoi fare come ti pare"».
Taceva o rispondeva?
«Secondo lei ho mai taciuto in vita mia? Rispondevo, rispondevo eccome. “Senta, io vengo da lontano, e lei mi deve rispettare altrimenti torno a Viareggio. Non ci metto niente sa? Prendo il primo treno e me ne vado”. A pensarci bene lui era burbero, ma io ero molto insolente».
Lui era un maestro, lei aveva quindici anni.
«Un maestro per cui provavo reverenza e rispetto. Sapevo o perlomeno avevo il sospetto che film come Divorzio all’italiana o Sedotta e abbandonata sarebbero entrati nell’immaginario collettivo. Ero consapevole dell’importanza del lavoro che stavo facendo».
Cos’altro aveva importanza a quell’età?
«L’amore, senza ombra di dubbio. Nel 1961 vidi Gino Paoli, alla Bussola, per la prima volta. Me ne innamorai quasi subito: “Ma come è carino” mi dissi. Mi piaceva lui, mi piacevano le canzoni».
La Bussola di Sergio Bernardini era un luogo mitologico.
«Lì ho visto Ray Charles, Stevie Wonder, Ella Fitzgerald, Chet Baker. Le donne che sentivano il jazz all’epoca erano considerate delle poco di buono. Ma non è vero, come canta Paolo Conte, che odiassero quella musica. Anzi».
Quando si fidanzò con Paoli a considerarla una poco di buono furono in molti.
«L’Italia del 1960 era un posto medievale, ma io non solo non sapevo che Gino fosse sposato, ma non avevo nessuna intenzione di convolare a nozze. Volevo semplicemente stare con lui».
Veramente non sapeva che Paoli fosse sposato?
«Me lo rivelò una delle sorelle di mia madre. Ma non c’erano equivoci: con Anna, la prima moglie di Gino, i rapporti sono sempre stati buonissimi».
Tra lei e Paoli c’era una grande differenza d’età.
«Quando mi domandò quanti anni avessi dissi la verità. Stavamo ballando vicinissimi e dopo la risposta notai un vago turbamento. L’amore nacque comunque, con delicatezza, lentamente. Qualche bacino, niente di più. Io tra l’altro ero fidanzata con un ragazzo bellissimo, Luciano Del Fante. Quando seppe di Gino qualche problema ci fu».
Paoli avrebbe voluto che lei si trasferisse a Milano.
«Non era il mio posto, Milano. Io mi sono innamorata di Roma, ho avuto proprio un colpo di fulmine. L’ho scelta come la città in cui vivere dal primo momento in cui l’ho vista».
Quando Gino Paoli tenta il suicidio lei si trova sul set di Sedotta e abbandonata.
«Mi chiesero se volessi partire subito, ma dissi di no. Non volevo affrontare i fotografi, la curiosità morbosa, l’inferno mediatico. E poi, poi le dico la verità, con lui ero molto arrabbiata. E un mese dopo, quando ci vedemmo, glielo dissi sul muso: “hai fatto una cosa molto violenta, mi hai fatto soffrire molto e secondo me non mi ami”. Poi lo perdonai perché lo amavo moltissimo e lasciarlo, provando quel sentimento, era obiettivamente difficile».
Cosa le piaceva di Paoli?
«Mi dicevano tutti: “è triste, è brutto, cosa ci trovi?”. “Brutto sarai tu” rispondevo. Io lo trovavo bellissimo. Occhi chiari, irresistibili, da bambino».
Cosa cercava nell’amore?
«Una corrispondenza di sensi. Non è sempre facile allinearsi, gli uomini sono degli animaletti, vanno subito al sodo, non sanno aspettare, non hanno pazienza. Ho sempre cercato persone che mi facessero ridere: senza ironia la vita è un’avventura che non vale la pena affrontare».
Ha detto: «Non ho mai amato un uomo che fosse ricco».
«Ho amato uomini con una profonda ricchezza interiore, come Giovanni Soldati, la persona con cui vivo felicemente da più di quarant’anni, ma non ho mai amato il loro portafogli. Io e mia figlia Amanda, da questo punto di vista, siamo identiche. Appena capiamo che sono abbienti fuggiamo a gambe levate. Con il denaro ho sempre avuto un rapporto nullo».
Lo ha dissipato?
«Non l’ho proprio calcolato. I soldi mi erano estranei, non avevano a che fare con me. Cercavo altro, cercavo le cose belle».
Qual è il film più bello che ha interpretato?
«Sono indecisa tra C’eravamo tanto amati e Il conformista di Bertolucci. È ardua, ma scelgo il secondo. Bernardo era un grande intellettuale, ma il suo lato più bello e inatteso era l’infantilismo. Conservava gelosamente le tracce del bambino che era stato. Sul set di Io ballo da sola giravamo spesso di notte e non c’era volta in cui l’arrivo dell’alba non lo facesse arrabbiare. “Non ho finito, maledizione” diceva. Non si dava pace. Io cercavo di placarlo: “Bernardo, non sei dio, goditi lo spettacolo della natura"».
Mastroianni, Tognazzi, Manfredi, Gassman. Solo per restare all’Italia, lei ha lavorato con gli attori italiani più talentuosi dello scorso secolo.
«Ho voluto bene a tutti e quando sono morti ho sofferto molto. Dire chi fosse il più bravo tra loro è impossibile e in fondo anche ingiusto».
E tra i registi?
«Monicelli era segreto, scorbutico, ma anche molto simpatico, come Tinto Brass che mi avevano descritto come una persona aggressiva e invece era dolcissimo. Comencini era a sua volta delizioso e pieno di una grazia parzialmente inespressa, uno che avrebbe potuto fare molto di più di quel che ha fatto. Scola meravigliosamente determinato. Aveva un piano preciso, Ettore. Sapeva come iniziare e quando finire, proprio come Virzì. Un grande. La prima cosa bella è uno dei film migliori che abbia interpretato in vita mia».
Il suo rimpianto?
«Non credo nel rimpianto. Le cose che sfuggono, sfuggono. Ripensarci non è poi così produttivo. Di sicuro mi sarebbe piaciuto interpretare Il giardino dei Finzi Contini e lavorare con Fellini. Federico me lo offrì, ma aspettavo mia figlia. L’ipotesi confinava con l’impossibilità».
Disse di no anche a Francis Ford Coppola.
«Mi aveva offerto un ruolo troppo simile a quello che avevo recitato in Sedotta e abbandonata. Ero già stata la vergine nazionale per eccellenza, diventare quella internazionale mi pareva troppo».
Cos’è stato il cinema per lei?
«Un lavoro di gruppo in una grande famiglia dove non c’è uno che conti più di un altro: dall’autista al regista, tutti hanno la loro importanza. Questa democrazia dei sentimenti è la principale ragione che me lo ha fatto amare».
Si è mai sentita una diva?
«Ho fatto slalom di ogni natura per non sentirmi tale e per non diventarlo. Non avrei mai potuto vivere nel divismo, piuttosto, come Mina, mi sarei eclissata».
Oggi cos’è il cinema?
«Oggi il cinema non esiste e credo che anche io non lo farò più. Sta scomparendo anche la sala e senza sala, abbia pazienza, che cinema si può fare?».
Esistono le piattaforme.
«E un sacco di premi inutili, di tappeti rossi irrilevanti, di cazzatine. Per me è un po’ deludente. Ho sempre considerato il cinema come un essere vivente e credo che essendo stato una parte fondamentale della mia esistenza soffrire un po’ per il suo stato attuale sia inevitabile. Poi in realtà io non ho niente contro le piattaforme. Sono realista. Se non si può tornare indietro si va avanti. Sa che le dico?».
Dica pure.
«Il cinema è nato, è cresciuto, è invecchiato. Alla fine della giostra può anche morire perché tanto la sua anima non morirà mai. Resterà comunque il più grande spettacolo di sempre».
Ha appena compiuto 79 anni.
«Ma lo sa che non me l’hanno detto? L’anno scorso ho festeggiato i settantasette. Me l’hanno nascosto e celare qualcosa a una distratta come me non è poi così complicato. Forse l’anno fatto per consolarmi, per non farmi sentire la vecchiaia. Ma hanno fatto male. Non mi sento vecchia e non ho nessun bisogno di essere consolata».
Se dovesse spiegare a un passante qualsiasi chi è stata cosa direbbe?
«Assolutamente niente. Non glielo spiegherei. Se mi hai visto, mi hai visto. Se non mi hai visto, caro mio, peggio per te».