Libero, 8 giugno 2025
Intervista a un giornalista centenario
Luigi Garrone, lei…
«No scusi, la prima domanda posso farla io?».
Dica.
«Per prendere appunti usa il block notes? Niente registratore?».
Sì, meglio la biro.
«Vero, ai miei tempi io scarabocchiavo qualsiasi cosa per segnarmi le notizie: pezzi di carta trovati all’ultimo momento, pacchetti delle sigarette e soprattutto bustine dei fiammiferi Minerva».
Quanto le manca la vita del cronista?
«Molto, ma ormai non ho più voglia di scrivere. Il computer è spento da un po’ e le notizie preferisco leggerle».
Si tiene aggiornato?
«Sempre, grazie ai quotidiani – locali e nazionali – e ai telegiornali».
Come passa, poi, il resto della giornata?
«In giardino ho un piccolo orto e me ne prendo cura: coltivo insalata, pomodori e altre verdure. Poi ho anche quattro viti».
Vive solo?
«Sì, da quando, nel 2020, è morta mia moglie. Ma i figli sono spesso da me e poi esco per andare a giocare a carte e bocce, che sono le mie passioni».
Parliamo di cibo: cosa mangia?
«Di tutto. I piatti preferiti sono la polenta e gli agnolotti al plin. Sempre accompagnati da un bicchiere di Barbera o Dolcetto».
Ai centenari, di solito, si chiede quale sia il segreto della loro longevità.
«Nel mio caso è l’avere avuto tanti amici veri. I più cari purtroppo sono morti, ma per fortuna c’è ancora Renato, che ha 100 anni e sta bene: ogni tanto vado a trovarlo per una sfida a scacchi. Io ho sempre curato i rapporti personali, fin da giovane».
Torniamoci insieme al piccolo Luigi Garrone.
«Nasco a Mongardino, provincia di Asti, il 5 novembre 1924. Papà Michele è uno “schiavandaro” e fa il contadino in un consorzio agrario, mamma Maria è una donna di servizio».
Figlio unico?
«No, ho un fratello e due sorelle».
Lei che bambino è?
«Vivace. Frequento le scuole elementari in paese, ma ripeto la quarta».
Troppo indisciplinato?
«No, ho una malformazione al braccio e la mia famiglia riesce a mandarmi all’ospedale Regina Margherita di Torino per farmi operare: è uno dei primi trapianti di tendine in Italia, però perdo tre mesi di lezione. Per fortuna la mia carriera scolastica non ne risente perché, grazie al parroco don Alfredo, mi ammettono alle medie dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Torino».
Prosegue con gli studi?
«Magistrali ad Asti e laurea in lingua e letterature straniere a Torino».
E ha subito la passione per la scrittura?
«Sì, alle superiori, insieme con alcuni compagni, fondo un giornalino che chiamiamo Il Castello».
Sono gli anni del fascismo.
«Io non sono abile per il servizio militare per via del braccio e, tre mesi dopo il diploma, mi unisco ai partigiani autonomi del Comandante “Leo”. Dopo alcune riunioni in aperta campagna decidiamo di dividerci in gruppi e vengo assegnato a quello di Mongardino con il nome di battaglia “Lo Sfregiato”».
Per la questione del braccio?
«Non solo. La scelta viene fatta dando a ognuno il nome di un personaggio de I promessi sposi e quando arriva il mio turno ci sono i Bravi, ma “Griso” è già stato assegnato».
Siete un gruppo armato?
«No, niente violenza. Il mio compito è di osservare tutto ciò che avviene al di là del fiume Tanaro e di dare, ogni sera, la parola d’ordine a tutti i distaccamenti della zona».
Una vera rete di informazione.
«Che il 2 dicembre del ’44 salva molte vite perché avvertiamo tutti che sta iniziando un grande rastrellamento nazifascista. Parallelamente a questo, intanto, faccio anche un giornale».
Clandestino?
«Eh sì. Si chiama La Campana, un foglio di quattro pagine in cui scriviamo di politica locale».
Come lo distribuite?
«Grazie a un prete amico. Viene stampato in un seminario tirandone mille copie e il sacerdote poi, poco alla volta, porta tutti i giornali al di là del Tanaro nascondendoli sotto la tonaca per passare indisturbato al checkpoint nazista».
Lei rischia mai la vita?
«Un lunedì di Pasqua, durante il servizio tra i partigiani autonomi, mamma mi fa chiamare dicendo di tornare a casa che ha preparato gli agnolotti. Mi faccio sostituire e in quel momento viene fatto un rastrellamento: uccidono tutti, compreso chi è al mio posto».
Dopo la guerra che fa?
«Aderisco alla Democrazia Cristiana, frequento l’università a Torino e inizio a collaborare con il giornale Il Popolo nuovo e poi con la Gazzetta d’Asti».
Nel frattempo lavora?
«Faccio il supplente a scuola e poi, grazie a un decreto prefettizio che favorisce l’assunzione di reduci, internati, partigiani ed ex prigionieri, entro alla Way-Assauto, azienda che produce componenti per l’industria meccanica ed automobilistica, dove poi divento responsabile dell’ufficio estero. Proprio in quel periodo, inoltre, incontro Lina, la mia futura moglie».
Come la conosce?
«Attraverso amici comuni. Ci sposiamo nel gennaio 1948 a Canelli: nel 1956 nasce Giorgio, che però muore a soli 2 anni, nel 1959 Paolo e nel 1962 Giorgio».
Luigi, torniamo al giornalismo. E alla cronaca nera.
«In quegli anni siamo tutti artigiani dell’informazione. Io lavoro in azienda fino alla 18 e poi vado a cercare notizie, anche se la Questura chiude proprio a quell’ora ed è un problema».
E come fa?
«Tra le mie fonti c’è qualcuno che mi lascia sul davanzale di una finestra dell’edificio la chiave dell’ufficio del Capo della Mobile. Così riesco a recuperare il foglio con tutti gli interventi effettuati».
Nel frattempo diventa corrispondente da Asti, tra le tante testate, per il Corriere della Sera, il Sole 24 Ore e l’agenzia Ansa: è il punto di riferimento per la stampa nazionale. I fatti più clamorosi che racconta quali sono?
«Ce ne sono tantissimi, dall’alluvione del ’48 alla morte del ciclista Gerbi fino al Delitto di Serravalle».
L’omicidio che l’ha più colpita?
«Quello di Maria Teresa Novara nel 1969, una bambina rapita, fatta prostituire e infine assassinata».
Il “buco” (una notizia che nessun altro ha ndr) più clamoroso che ha dato?
«La morte di Badoglio l’1 novembre 1956».
Raccontiamo.
«Ho un amico che fa i turni nella società dei telefoni e mi avvisa che c’è un anomalo traffico tra Roma e Grazzano: capisco, verifico e, azzardando un po’, sparo la notizia».
In quegli anni non ci sono internet, social, tecnologie. Come fate?
«Ci vogliono coraggio, sfrontatezza e fortuna: sa quante volte faccio folli viaggi in Lambretta verso Torino per portare in tempo una notizia o una fotografia? Poi, ovviamente, ci sono anche trucchetti del mestiere...».
Tipo?
«Primi Anni ’90, tempo di Tangentopoli, ad Asti scoppia una sorta di delirio da arresto. E riesco ad avare sempre la notizia giusta».
Come?
«Questione di fonti».
Ci sveli qualche dettaglio in più...
«Il procuratore è un amico e, attraverso la sua segretaria, organizzo un metodo infallibile per sapere come vanno gli interrogatori: se a fine giornata le tapparelle del suo ufficio sono alzate significa che la persona inquisita viene scagionata, se sono abbassate è arrestata. Un giochetto che poi, nel 1986, funziona anche con lo scandalo del vino al metanolo».
Meraviglioso. Lei, nel tempo, ha vissuto direttamente la trasformazione del giornalismo.
«Ho scritto per anni con una Olivetti Lettera 22, ho usato il fax, il teledrin, i cellulari, internet, i computer, i tablet. Cambiano gli strumenti, ma alla fine le qualità più importanti per un giornalista restano l’istinto e la cura delle fonti. Ora come 60 anni fa».
Luigi, ultime domande veloci. 1) Rapporto con la religione?
«Molto buono, vado spesso in chiesa».
2) Paura della morte?
«Sì, come tutti».
3) Si sta meglio ora o si stava meglio 100 anni fa?
«Sicuramente adesso, la vita è migliorata».
4) Ha ancora un sogno?
«Stare tranquillo e godermi la vecchiaia».
Ultimissima. All’inizio ha detto che il suo computer è spento da un po’: cosa potrebbe farlo riaccendere?
«Una grande notizia di nera: solo così potrebbe tornarmi la voglia di scrivere».