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 2025  giugno 06 Venerdì calendario

Intervista a Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo è un profeta di rivoluzioni copernicane in lettere. Ama stupire senza, però, perdersi in inutili sensazionalismi. Lo incontriamo alla vigilia del suo 42esimo compleanno, nel giorno in cui esce sulla piattaforma digitale Substack il terzo appuntamento con il “romanzo a puntate” intitolato 1999 – Un attimo prima del mondo com’è, con il quale l’autore romano, di fatto, ha reinventato, in forma per ora solo digitale (probabile genesi di un progetto editoriale cartaceo per La nave di Teseo)
un genere desueto: il feuilleton. Voce autorevole e riconosciuta, quella di Di Paolo. Lo scorso anno è stato finalista al Premio Strega col suo Romanzo senza umani (Feltrinelli 2023).
Eppure lui ama mantenere un punto di vista volutamente laterale, ripartendo da una sorta di romanzo di formazione scritto, però, al futuro anteriore.
Paolo, da dove nasce la necessità di ripartire dal 1999?
«La cosa più semplice da dire potrebbe essere che si è trattato di un anno simbolico. Uno di quelli nei quali l’umanità immagina di vivere dei passaggi, delle cesure. In realtà, non so che cosa significhi 1999 nella storia dell’universo. Quasi sicuramente nulla, al di là dell’angoscia ricorsivamente millenarista toccata in sorte a pezzi di civiltà umana. La stessa che per l’anno 1000 avevamo studiato sui libri di scuola, noi ci siamo ritrovati a viverla per il 2000, un anno che prometteva e minacciava nello stesso tempo…».
Sono state più le promesse o le minacce ad avverarsi finora?
«Il primo decennio del nuovo secolo era stato intitolato alla pace e alla nonviolenza, una specie di ansia di palingenesi che poi non si verifica mai. Al punto che è bastato qualche segmento dell’anno successivo, il 2001, tra l’estate e l’autunno, per piombarci in un’altra storia di violenza e di disincanto. E poi, naturalmente, con l’11 settembre si è aperto un capitolo di cui abbiamo colto gli esiti ben oltre quella data...»
E forse li stiamo ancora cogliendo…
«Questo perché, attraverso l’11 settembre, ci siamo portati nel nuovo secolo tutte le ipoteche del ‘900 che pensavamo di esserci scrollati di dosso con un colpo di spalle. Ma un secolo non finisce certo quando è scritto sul calendario o quando lo decidiamo noi…».
Da queste valutazioni si può capire la scelta di tornare lì usando un futuro anteriore che in realtà dà modo di “leggere” il futuro interiore della sua generazione. È così?
«Non a caso ho voluto mettere quel sottotitolo Un attimo prima del mondo com’è. Quel 1999 serve anche a capire come la mia generazione che si è affacciata alla vita adulta con l’inizio del nuovo secolo, sia stata in realtà un po’ ricattata dal Novecento, perché le nostre strutture etiche, estetiche e politiche sono novecentesche».
Ricostruirà quest’ansia un po’ bipolare nelle prossime puntate del suo romanzo?
«Non lo so perché questa formula è tutta un canovaccio in continua evoluzione. Mi capita di finire a scrivere le puntate pochi minuti prima di caricarle on line alle 12 del venerdì con una velocità in un certo senso quasi giornalistica».
Il giornalismo e la letteratura sono entrati nel nuovo secolo o fanno fatica pure loro?
«Un po’ tutti, anche la mia generazione, ha creduto che talune figure, taluni metodi, potessero essere replicati in eterno… Invece anche noi, appena ci siamo conquistati quel minimo di credito necessario, ci siamo accorti che tutti i paradigmi erano già in fondo modificati strutturalmente. E quindi fare il giornalista o lo scrittore “novecentesco” nel ventunesimo secolo era solo un’illusione».
I grandi maestri del ‘900 secondo lei avevano colto la complessità del passaggio da compiere?
«Rileggendo Montanelli ma anche Tabucchi, penso a libri come Tristano muore, colpisce l’ossessione che questi grandi autori avevano sulla fine del Novecento. Sulla possibilità o meno di traghettare le inquietudini, i modelli di pensiero tra il pre-digitale e il digitale, tra l’analogico e l’ipertecnologico. Con la velocità folle per la quale ormai un anno dura un secondo, la nostra generazione che è quella più anfibia, esattamente a cavallo tra i due secoli, credo stia perdendo davvero molte possibilità«.
Come li salviamo allora questi quarantenni di oggi?
«Calvino, citato spesso a sproposito per il concetto di leggerezza, proprio nell’estate del 1985, l’anno in cui morì, avrebbe dovuto scrivere una lezione da tenere ad Harvard che poi non ha scritto. Sappiamo dalla moglie che doveva essere Consistency, cioè spessore, consistenza, addirittura coerenza. È interessante che la lezione americana mancante sia giocata su un antidoto all’eccesso di leggerezza, di molteplicità, di visibilità di rapidità che noi abbiamo portato al parossismo».
Cosa pensa della cinquina dello Strega 2025?
«Mi pare che sia esplosivo il racconto in prima persona. Un io che diventa misura del mondo. Con tutto ciò che ne consegue, anche in termini di riflesso sociologico».
Lei lo scorso anno ci ha dipinto un rapporto di amicizia tra finalisti. Altri parlano di “amichettismo”? A chi credere?
«Il clima di serenità e divertimento dello scorso anno non era una recita, ma un trovarsi complici nella stessa – faticosa ma fortunata – avventura. L’amichettismo non è amicizia ma uso opportunistico delle relazioni e, se c’è, infiltra ogni ambito umano».
È un caso o un sintomo grave il fatto che due dei cinque libri finalisti parlino di rapporti tossici in famiglie disfunzionali?
«La letteratura ha sempre esplorato l’universo familiare, soprattutto badando alle ombre. Certo, come ha notato nelle ultime edizioni Melania Mazzucco, l’umore cupo del paese sembra coinvolgere anche il racconto della famiglia, una infelicità quotidiana che spesso diventa asfittica e senza aperture con l’esterno. Talvolta mi verrebbe da citare Moretti: Sveglia! Il mondo è più grande di questo condominio!».
Lei è padre di una bambina nata nel 2020. Cosa chiedono i bambini che oggi hanno cinque anni?
«Non mi piace la mistica della maternità e della paternità. Però è vero che i bambini ti costringono a ricaricare di senso ogni circostanza dell’esistenza. Quello che colgo negli occhi di mia figlia è la paura di vedere i genitori risucchiati dagli strumenti digitali. Praticamente i nati negli anni 20 ancora in corso ci rimproverano quello che i nostri padri, da Recalcati a Cazzullo, rimproverano agli adolescenti. Senza rendersi conto che spesso le nuovissime generazioni hanno, non dico gli anticorpi, ma una sottigliezza di spirito e una capacità dialettica con gli strumenti digitali, maggiore di quella che abbiamo noi e la generazione dei nostri genitori».
Mi sta dicendo che la ribellione dei piccoli di oggi sarà contro l’Intelligenza Artificiale?
«Penso che riusciranno a guardare anche all’Intelligenza Artificiale con un opportunismo intelligente, per sfruttarne i vantaggi senza perdere un sano, ironico distacco».