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 2025  giugno 08 Domenica calendario

Intervista a Jasmine Trinca

In un’intervista di qualche tempo fa Jasmine Trinca diceva di aver deciso di fare l’attrice perché desiderava che qualcuno posasse lo sguardo su di lei. Adesso, dai tempi in cui ha debuttato, a 19 anni, con Nanni Moretti, nella Stanza del figlio, gli sguardi si sono moltiplicati, anzi, pubblico e registi, non sembrano avere occhi che per lei: «Forse, in qualche modo, ho tentato una strada per essere vista, non in un modo ordinario, ma per avere uno sguardo più morbido su chi ero». E anche, aggiunge dopo un attimo («ci sto pensando adesso, insieme a te») «per avere una possibilità, rispetto alla mia vita dell’epoca, di vivere altre esistenze, più accoglienti di quella in cui mi trovavo». Romana, classe 1981, fresca vincitrice del Nastro d’argento Grandi Serie per il ruolo di Madre Leonora nell’Arte della gioia di Valeria Golino, Jasmine Trinca riflette a lungo prima di rispondere, allunga le gambe, pianta i suoi occhi vellutati sull’interlocutore: «La creatività ti offre una grande opportunità. Al di là della propria vita, che può essere più o meno interessante, hai l’occasione, e con essa il peso, di esprimere il racconto di tanti altri».
Se guarda indietro, si vede molto cambiata rispetto ai suoi inizi?
«Non molto. Però sì, una trasformazione c’è stata. Mi fa strano non ricordare la bambina che sono stata, da dove vengo… e sono sempre abbastanza sorpresa delle cose che mi capitano. Lo dico sinceramente, mi sento, ancora adesso, come se fossi un po’ “travestita da attrice"».
Quali sono stati gli incontri fondamentali della sua vita?
«Oh Madonna, questa è difficile… ne ho alcuni. Ce n’è uno, fondativo, si sa, altrimenti saremmo qui a parlare d’altro, che è quello con Nanni Moretti. Lì è cambiato il mio possibile».
Siete rimasti in contatto?
«Ci conosciamo da 25 anni… Sì, adesso ci sentiamo».
Altre conoscenze cruciali?
«Valeria Golino, Francesca Manieri con cui ho scritto il mio film Marcel!, il mio maestro delle elementari, Antonio, che mi ha insegnato a vedere le cose in un altro modo».
Quale?
«Mi ha fatto appassionare all’archeologia, infatti volevo fare l’archeologa. Era poco nozionistico, molto attento alla sensibilità dei ragazzi. Penso che abbia letto qualcosa dentro di me. Ero timidissima, una volta, in una recita di fine anno, mi fece cantare Tanto pe cantà, mettendomi in piedi sulla cattedra, una cosa per me impensabile…. Lo sguardo fiducioso di qualcuno è un modo importante per amare i bambini e farli crescere bene».
Recitare, scegliere i ruoli, può essere un lavoro politico. Lei quando e come lo ha capito?
«Non è che l’ho capito subito, però, fin dall’inizio, ho pensato che le scelte fossero importanti e non sono mai stata guidata dalla fame di fama. Poi, sì, ci sono stati dei ruoli particolarmente significativi. Parlo di Miele di Valeria Golino, di Un giorno devi andare di Giorgio Diritti, di Fortunata di Sergio Castellitto. In quei film interpretavo personaggi che raccontavano qualcosa di politico. Da allora in poi è stato tutto più incisivo, potevo scegliere io da che parte andare. Penso profondamente che il cinema abbia la grande responsabilità di formare l’immaginario delle persone».
In che cosa sono diverse le ragazze di oggi da quelle di ieri?
«C’è una differenza globale che riguarda il rapporto con la realtà. Siamo in un’epoca in cui tutto è molto mediato, le ragazze di oggi hanno più libertà di vedute e di affermazione di sé. In meno hanno, forse, la possibilità di mangiarsi la vita, quella un tempo c’era. Vivono in un reale fatto di “interposto telefono”, un mondo così cupo e così poco vitale, e questo pesa, anche sulle risposte rabbiose che possono dare».
Ha dato vita, insieme ad altre registe e attrici, al movimento @dissenso comune, il Metoo italiano. Che, però, a differenza di quello francese, si è arenato. Secondo lei perché?
«@dissensocomune nasce sull’onda del MeToo, rappresentava la voce delle donne e la spinta a non farle più sentire sole nella loro condizione. Significava fiducia e solidarietà. In Italia non è andato avanti, perché culturalmente siamo un Paese patriarcale, e poi perché forse perché è mancata la rete. Qui è successo che alcune donne abbiano parlato e siano state lasciate colpevolmente sole. Però qualcosa è successo, oggi, grazie a quell’ondata, anche da noi, i maschi che molestano si sono presi paura, prima di fare certe cose hanno capito che devono fare attenzione. Non escludo, però, che lo schifo possa continuare. Per estirpare quella piaga serve sempre un’esposizione collettiva forte. Da noi, dopo quei tentativi, c’è stata una timidezza. Sta a noi, adesso, continuare a lottare».
In Francia si è arrivati alla sentenza esemplare su Gerard Depardieu. Da noi potrebbe mai succedere una cosa simile?
«Io credo di no, anche se me lo auguro. Quando siamo arrivate molto vicine a quel tipo di obiettivo… Mi pare che non l’abbiamo raggiunto, anche perché qui mancano sia un sistema giudiziario che sostenga le donne in questo tipo di battaglie, sia un giornalismo d’inchiesta che svolga indagini per fare chiarezza e pulizia. In Francia sono successe cose importanti. Dalle parole di Adele Haenel, di Judith Godreche, di mille altre donne, sono scaturiti i fatti, e trovo che Juliette Binoche, a Cannes, abbia commentato benissimo la notizia della condanna di Depardieu dicendo “non esistono mostri sacri, siamo noi che li creiamo"».
Ha una figlia. Che tipo di madre è?
«Sono una madre che rispetta sua figlia e, visto che il mio lavoro comporta un carico inevitabile di presenza e visibilità, per lei voglio essere invisibile, una buona spalla, per una ragazza che ha tutto da dire. Io ho già detto, lei ha 16 anni, ora tocca a lei, deve costruire tutta la sua identità».
Che cosa si augura nel momento così difficile che stiamo attraversando?
«Da una parte mi auguro giustizia vera nel mondo, la fine dell’orrore. Dall’altra ho la speranza che il futuro possa avere uno sguardo femminile, penso alla canzone di Dalla, Futura, una ragazza che prende il mondo in mano, per trasformarlo e renderlo un luogo migliore».