Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 08 Domenica calendario

"L’arte è un incendio e non un investimento Io dipingo con il cervello"

«L’arte deve ritrovare una dimensione più profonda e meditativa»: Ugo Nespolo, la più alta autorità patafisica, 3.900 mostre in tutto il mondo, ma di casa a Torino, pittore, regista cinematografico, scenografo, scrittore, intellettuale (categoria che lui stesso, tuttavia, sostiene sia scomparsa), «si ostina a interrogarsi sugli aspetti e sul destino della società contemporanea e, in particolare, del sistema dell’arte, nel quale peraltro è radicato, pur con crescente disagio, da quasi sei decenni» dice Sandro Parmiggiani, curatore della personale “Universo Nespolo”, a Villa Giulia, sul Lago Maggiore fino al 28 settembre. Attraverso un centinaio di opere si ripercorrono i 60 anni di carriera dell’artista piemontese, rimasto fedele alla scelta, fondamento della sua poetica, di fare lievitare nei suoi lavori l’ironia, la trasgressione, il gioco.
Maestro, a cosa è dovuto il “crescente disagio”?
«A quell’attitudine, tanto in voga, secondo cui la cultura sarebbe un accessorio. Attenzione a perpetrare questo pensiero: il rischio è che si avveri. Torino, in particolare, abbandoni la sua protervia, smetta di narrarsi come la capitale di tutto, dell’arte, dell’avanguardia».
Non lo è?
«Ha fatto grandi cose ma anche preso grandi abbagli».
Ad esempio?
«Si è sempre pensato che fosse capitale dell’arte povera, ma l’arte povera con Torino non c’entra niente. Non esiste come concetto».
Sarebbe?
«Un movimento importante, lo so, di artisti eterogenei, in cui però uno non poteva vedere l’altro: cosa c’entra Paolini con Pistoletto o con le stelle di Zorio? Il manifesto diceva: “L’arte povera, appunti per una guerriglia": ma quell’arte, in realtà, era fatta per i salotti e lì è finita».
Lei detesta gli assiomi, ama sfatarli.
«L’arte ne ha due. Il primo sostiene che “si compra arte per investimento” e il secondo dice che “ciò che costa vale”. Finalmente questa bolla è scoppiata, ma non ne siamo ancora del tutto usciti».
Vuol dirci che i soldi non contano?
«L’arte è sempre più esposta al cotè finanziario. Pensi al “Rabbit” di Jeff Koons venduta all’asta nel 2019 per 91,1 milioni di dollari. Assurdità perpetrata con la complicità del jet set».
Soluzioni?
«L’arte deve riuscire a ritrovare una dimensione più profonda, più mistica».
È la sua missione?
«Un’opera deve far pensare, creare relazioni. Non si acquista per investimento, ma per passione».
Cosa manca a Torino?
«Concettualmente avrebbe bisogno di un piccolo Moma, che metta insieme le culture, l’Ottocento innanzitutto, patrimonio nostro, il Novecento, il design automobilistico».
Lei come ha scoperto l’arte?
«Grazie a mio zio Aligi di Alessandria. Lavorava in Banca ma si licenziò e andò a fare il posteggiatore all’Aci per avere il tempo di coltivare le sue passioni, suonare la chitarra e dipingere. Quando si trasferì a casa nostra a Torino mi avvicinò a questo mondo».
Nespolo, che studente è stato?
«Dopo la scuola dell’obbligo ho preso due anni sabbatici per seguire corsi di inglese e tedesco e imparare stenografia e dattilografia. Sembravano sciocchezze invece mi sono servite. Lì una professoressa di letteratura, però, insistette perché continuassi gli studi. Così mi sono iscritto al liceo. Poi all’Università».
Fino al decollo come artista: paradossalmente, rilevante, per la sua storia, è stata Milano…
«Mi ha sempre accolto, fin dagli inizi nella Galleria Marconi, dagli incontri con Enrico Baj, poi Paolo Marinotti, Peggy Guggenheim, Arturo Schwarz».
Eppure non ha mai traslocato…
«Alla fine qui si ritorna alle origini e a Torino si vive meglio».
Una cosa buona, allora, ce l’ha la sua città?
«Mi dà più tempo per pensare, è metafisica e malinconica».
Cos’è per lei la malinconia?
«Quella attiva, di Van Gogh, non quella che dispera. Su quella malinconia costruisci qualcosa. Comunque a Torino voglio bene. Ho avuto uno studio a New York, una casa a Venezia, in Francia ce l’ho ancora, ma qui ho il mio spazio di 5 mila metri quadri e 40 mila libri».
Cosa direbbe a un aspirante artista?
«L’opera d’arte non la fa la mano ma il cervello. Viviamo una specie di impotenza generale, l’abbiamo dentro, dunque a un giovane direi: preparati a soffrire. L’arte è bulimica allo spasmo, è la nuova logica di produzione della cultura, è avviata verso il suo vanishing point, una simulazione assoluta. È questo il tema. La invito a fare una prova»
Sono pronta.
«Quando esce per strada, chieda alla gente: che ruolo ha l’arte nella sua vita? Non sapranno rispondere, o la crederanno impazzita. Perché non lo sanno. C’è spazio per l’arte nelle nostre vite? Ma soprattutto: che cos’è l’arte?».
Già, Maestro, cos’è l’arte?
«Qualcosa che ti dà tanto, che ti fa pensare, che ti tormenta, che ti brucia. L’arte deve parlarti, deve dirti qualcosa, non ti deve solo dire che è bella perché costa».
Dopo 3.900 mostre, dalla Russia alla Cina, dall’America Latina agli Stati Uniti, ce l’ha ancora un sogno?
«Ho conosciuto tanta gente, mi piacerebbe mettere un po’ di vita in un libro. Ma non penso a un’autobiografia, non mi piace. Piuttosto a un finto libro di memorie, è più divertente».