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 2025  giugno 08 Domenica calendario

"La lezione di mio padre è stata una sola Se vuoi una cosa te la devi guadagnare"

C’è un Gabry Ponte che conosciamo tutti: l’anima della festa, l’uomo della notte a cui bastano tre parole (Da ba dee) per far ballare Tutta l’Italia (Sanremo compresa). Il dj producer da 6 miliardi di stream globali, il primo a esibirsi allo stadio San Siro di Milano (il 28 giugno, ma è già tutto sold out da un pezzo) e che non teme nemmeno un palco ostico come l’Eurovision Song Contest. Sembra un uomo senza paura, il Goku – per via dei capelli – della musica italiana. Invece il suo unico superpotere è l’impegno («farsi un gran mazzo»: la regola d’oro di suo papà), come scopriremo dal 3 giugno quando Ponte ci farà ascoltare “il lato B” della sua vita: quello meno noto ma, come spesso succede negli album, più ricercato e genuino. Martedì esce infatti la sua prima autobiografia: Dance&Love, la mia musica, la mia vita, edito da Rizzoli. I capitoli sono divisi in lato A (la carriera) e lato B (la sua vita personale) ed è qui che conosciamo l’altro Gabry: il ragazzino schivo, con il papà re dei campeggi estivi, solare e compagnone, e una mamma volata in cielo troppo presto. Quando un’auto la travolse accidentalmente, lui aveva appena otto anni: un’età troppo esile anche solo per afferrare il concetto stesso di morte. «Mi dicevano che mamma non c’era più, ma io non capivo: ero troppo piccolo». Così quel vuoto diventa rabbia, e poi diffidenza e solitudine, che solo la magia della musica è riuscita, piano piano, a scalfire.
Cos’è rimasto di quel bambino solitario e arrabbiato?
«Non sono mai stato, né credo sarò mai, come mio padre che era un gran chiacchierone, amava stare in mezzo alla gente. Io sono più silenzioso: ancora adesso, quando mi presentano qualcuno, sto sulle mie e purtroppo questa timidezza viene spesso confusa con un atteggiamento di disinteresse. Quanto alla rabbia, il tempo porta la pace: piano piano è andata stemperandosi finché, quattro anni fa, sono diventato papà. Lì ho sentito che un cerchio si stava chiudendo. È come se mia figlia fosse riuscita a colmare quel vuoto di amore che mi trascinavo dietro».
All’epoca era troppo piccolo per capire la morte. Oggi, da adulto, è riuscito a scendere a patti con questo mistero?
«Proprio perché sono un appassionato di fisica – l’ho studiata all’università –, sono credente. Fede e scienza sono inversamente proporzionali: dove non arriva una, subentra l’altra. La fisica riesce a spiegare tantissime cose, anche in merito alla creazione dell’universo, ma c’è quell’ultimo miglio, quella frazione di tempo che ha dato vita a tutto, che resta inafferrabile. È un mistero più grande di noi, che un giorno ci verrà svelato e a quel punto tutto sarà chiaro. Quindi, sì: penso esista qualcosa dopo la morte e che ci sia un Essere che veglia su di noi».
Da adolescente venne bocciato a scuola, poi rivalutò lo studio dopo che suo padre lo mise a lavorare tutta l’estate in farmacia. Sempre suo papà ha insistito perché facesse l’università: guardava le discoteche con sospetto. Possiamo definirlo l’uomo dei “bagni di realtà” ?
«Papà mi ha insegnato “a farmi il mazzo”. Con me e mia sorella era esigente: un uomo severo ma giusto, che era l’esatto opposto dell’amicone solare e spensierato che vedevamo fuori casa. Probabilmente sentiva il peso della responsabilità di doverci tirare su da solo. Il suo mantra era: “se desideri una cosa, te la devi guadagnare” e di questo insegnamento gli sarò sempre grato perché la realtà è una grande maestra di vita».
Anche in un mondo governato dai social?
«Eh, bella domanda. Temo di no. Internet falsa la nostra percezione del mondo e il rischio è che i “bagni di realtà” non esistano più. Per esempio, tra me e mio padre c’era una differenza generazionale: lui non capiva il mio mondo (remore peraltro comprensibili, perché sognavo di fare il dj producer, un mestiere che ancora non esisteva…) ma l’approccio alla vita era lo stesso. Si era pratici. Ora non è più così. In passato le batoste le prendevi in faccia, oggi sono virtuali: passano per dei like bassi o dei commenti negativi. È tutto diventato estremamente aleatorio e così spesso la colpa è solo degli altri: che non capiscono, che criticano… Noi cadiamo sempre in piedi. E lo dico per esperienza».
In che senso?
«Sono stato il primo a cadere nella trappola dei social. Da ragazzo, quando il web non esisteva, non mi sarei mai sognato di sostenere che un album fosse andato male perché il pubblico non capiva. Non era proprio un’ipotesi possibile, ma nemmeno una categoria mentale. Ora invece c’è la tentazione di dare la colpa alla playlist sbagliata, agli haters. Per fortuna, essendo approdato online da adulto, mi sono presto reso conto di questo atteggiamento errato, ma a 13 o 14 anni come ci riesci? È impossibile».
Nel libro scrive: “da bambino stavo sul ca**o a chiunque, ma non posso dire che mi interessasse o che ne soffrissi: era un dato di fatto”. Ora il dato di fatto è che piace a tutti. Continua a non interessarle?
«Sì, e qui sta forse lo scarto. Io facevo musica per fare musica: non mi interessava nient’altro, tant’è vero che manco guardavo quello che firmavo nei contratti discografici. Oggi invece nove ragazzi su dieci scelgono questo mestiere per i soldi o per la fama ed è un problema: se questo è il tuo obiettivo, probabilmente non lo realizzerai mai e, se anche ci riesci, sarà un potenziale disastro, perché è facilissimo perdersi. La mia fortuna è stata avere un produttore discografico come Massimo Gabutti: un secondo padre. Non mi fomentava e mi teneva con i piedi per terra: se serviva, mi rimproverava anche duramente».
Nessun rancore per l’ultimo posto all’Eurovision Song Contest 2025?
«Meglio così che penultimo: almeno se ne parla. Battuta a parte, sapevo di non avere speranze né di vincere né di fare bene: nessun dj si è mai piazzato in alto all’Eurovision, perché è un contest improntato sui performer e i cantanti. Io invece sono arrivato senza cantare e senza ballerini: ero la pecora nera del gregge. Bisogna accettare di perdere, non si può avere sempre tutto perfettamente in bolla. Detto questo, sono tornato a casa con una visibilità maggiore: il brano Tutta l’Italia ha quadruplicato gli stream in una settimana e dall’estero mi stanno cercando per nuove collaborazioni».
Cosa pensa della polemica sulla cantante israeliana Yuval Raphael?
«Penso che la gente non si informi. Eurovision è un contest tra emittenti tv e ha bannato la Russia non per ragioni politiche, ma perché la rete non era un’emittente pluralista. Quella israeliana invece lo è ed è stata ammessa. Tra l’altro la canzone di Raphael era molto bella. Mi spiace per queste polemiche perché la musica dovrebbe essere lasciata libera di fare il suo lavoro: unire la gente. È giusto lottare contro le ingiustizie, invocare la pace e scendere in piazza ma è anche bello che esista un momento come l’Eurovision dove smettiamo di essere “diversi” e diventiamo un unico popolo».
A 52 anni riempie San Siro e fa ballare gli adolescenti. Sindrome da Peter Pan?
«Il mio lavoro mi spinge a essere mentalmente settato sui 25/30 anni: i ritmi sono gli stessi della prima tournée con gli Eiffel 65, solo che ora li smaltisco più lentamente. Però non ho la sindrome da eterno ragazzino: sono in pace, ogni età ha i suoi lati positivi. Inoltre non è un caso se a San Siro ci arrivo adesso, dopo 30 anni: non è lo stadio che si trasforma in una discoteca, ma il contrario. È quella discoteca, da cui sono partito da ragazzo, che è cresciuta allargandosi sempre di più e tenendo dentro tre generazioni: i miei coetanei, i loro figli, i nipoti. Sì, mi sono fatto il mazzo».