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 2025  giugno 08 Domenica calendario

Lo spleen dell’irregolarità

In Der junge Lord, la deliziosa opera comica del 1965 di Hans-Werner Henze, su libretto genialissimo di Ingeborg Bachmann, recentemente riesumata con gran successo al Maggio fiorentino, il protagonista (muto) è un nobiluomo inglese che nel 1830 si trasferisce in una cittadina tedesca provincialissima e noiosissima. I maggiorenti locali, i Prominenten, vorrebbero coinvolgerlo nella loro vita sociale, ma sir Edgar li snobba e si chiude in casa con il suo bizzarro seguito. Ne esce solo per assistere allo spettacolo di un circo che passa di lì e, quando gli autoctoni lo scacciano, invita clown e mangiatori di fuoco a esibirsi a casa sua (l’opera, per inciso, finisce quando si scopre che il nipote ed erede del vecchio, lord Barrat, corteggiatissimo da tutti, è in realtà una scimmia ammaestrata). È un dettaglio, se volete, ma la dice lunga sul fascino del circo. Come spettacolo, d’accordo, e magari con maggior forza in epoche in cui la spettacolarità si declinava in maniera più ingenua e artigianale che nell’attuale evo degli effetti speciali e dell’intelligenza artificiale; ma, soprattutto, come alternativa radicale alle regole sociali: la libertà, il nomadismo e il disordine del circo come evasione, o forse ribellione, dall’ordine borghese. Anni fa, una bellissima mostra parigina allestita nientemeno che da Robert Carsen sui “Bohèmes”, gli zingari, da sempre legati al mondo del circo, mostrò questa attrazione-repulsione della società ottocentesca per quelli che restano pur sempre degli irregolari, anche se oggi riconosciuti come artisti e, in Italia, perfino sovvenzionati dallo Stato.
Da qui la molta attrazione e la poca repulsione degli artisti. In letteratura, comincia papà Goethe nel Wilhelm Meister, dove l’ammirazione del protagonista per i “numeri” del circo appena applauditi e più in generale dello spettacolo diventa riflessione filosofica sul loro valore educativo, quindi sociale, dando ragione al solito Aristotele: «Quale scrittore, quale attore non sarebbe felice di ottenere un successo così universale? Quale profondo senso di gioia proveremmo se potessimo diffondere ovunque, come per una scintilla elettrica, anche i sentimenti buoni, nobili, degni dell’umanità, e accendere così negli uomini un entusiasmo simile a quello che aveva suscitato quella gente con i suoi esercizi visibili! E se al popolo o almeno i suoi migliori elementi si potesse infondere il sentimento di comunanza con tutto quello che è umano e sconvolgerlo e infiammarlo con la rappresentazione della felicità e dell’infelicità, della saggezza e della follia, della scempiaggine e della stoltezza, scuotendone la stagnante pigrizia interiore! Solo allora, io penso, avverrebbe quello che si attendeva dalla tragedia l’antico filosofo, la purificazione delle passioni». Ma il catalogo delle sbornie letterarie per pagliacci e acrobati è lunghissimo. Ci si iscrivono anche Baudelaire («Le ballerine, belle come fate o principesse, saltavano e facevano capriole sotto il fuoco delle lanterne, che riempiva di scintille le loro gonnelle», Il vecchio saltimbanco) e poi Hugo, Kafka, Rilke, Jack London, Mark Twain e naturalmente Collodi.
Intanto i pittori riempiono ettari di tele di clown e domatori. Un nome per tutti: Picasso, ma un elenco esaustivo e ragionato si trova in un bellissimo saggio di Arianna di Genova per Il Saggiatore, Il circo nell’arte – Dagli arlecchini di Picasso al fachiro di Cattelan. L’altra faccia della luna, l’aspetto malinconico del circo, le amarezze della vita on the road, lo spleen che arriva quando lo spettacolo finisce, le luci spengono e dalla faccia si toglie la farina (ah, giusto: «Vesti la giubba, e la faccia infarina», come dimenticare Pagliacci di Leoncavallo con le sue romanze strappa core?), insomma, si diceva, il rovescio della medaglia lo coglie, e molto bene, il cinema. E qui, ovviamente, lode a Fellini, sia nelle Notti di Cabiria che soprattutto nei Clowns, dove compaiono anche Liana, Nando e Rinaldo Orfei nella parte di loro stessi. E forse anticipato da un’altra pellicola dal retrogusto amaro come The Circus con un Charlie Chaplin al suo meglio, mentre pochi decenni dopo, a Hollywood, sarà trionfalismo circense con Cecil B. De Mille, Il più grande spettacolo del mondo.
E tuttavia non è tutto oro, anzi per nulla, quello che risplende nelle paillettes. Il vero progenitore del papà di tutti i clown, Arlecchino, si chiama Alichino ed è un diavolo, benché un po’ buffo, e come tale spedito all’Inferno da Dante, a immergere i barattieri nella pece bollente della relativa bolgia, salvo poi finirci lui dopo una zuffa con un altro demone, Calcabrina.
Però Gustave Doré l’Alichino dantesco lo disegna sospeso nell’aria, in un volo fantastico a testa in giù: proprio come un acrobata senza rete, sotto il tendone delle meraviglie. —